“SONO QUELLI A CUI NON VIENE FATTO IL TAMPONE COVID-19 PERCHÉ INSOSTITUIBILI.
LA NOSTRA SODDISFAZIONE-REALIZZAZIONE NON VIENE DALLE ISTITUZIONI, CHE IN TUTTI QUESTI ANNI HANNO DISTRUTTO IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE MA DAI SINCERI RINGRAZIAMENTI DEI PAZIENTI”
Lettera pubblicata dal “Fatto Quotidiano”
Stiamo vivendo un dramma sanitario di enormi proporzioni dalle conseguenze incalcolabili sia in vite umane sia in danni economici, che rattrista profondamente il nostro cuore. Non è il momento di fare polemiche, non è assolutamente questa la mia intenzione, ma vorrei che la gente sapesse qualcosa in più sugli "eroi" infermieri.
Gli infermieri sono quelli che - da sempre - si prendono cura delle persone, stanno loro accanto nei momenti più difficili, a loro e alle loro famiglie, di giorno e di notte, 365 giorni all' anno. Li curano, li consolano, li aiutano a guarire il corpo e lo spirito, gli danno la forza di andare avanti.
Sono quelli che rischiano la propria vita (e la vita dei loro familiari) tutti i giorni, non solo per il Covid-19, ma anche per l' epatite, la Sars, l' Hiv e tante altre malattie infettive più o meno letali.
Sono quelli che hanno lo stipendio bloccato a 1.600 euro da circa 20 anni e lavorano in condizioni sempre peggiori, sempre con meno diritti e più doveri (i sindacati non esistono più), con meno personale, e con le esigenze assistenziali dei pazienti che aumentano sempre di più nel tempo.
Sono quelli a cui vengono NEGATE le ferie che invece dovrebbero essere garantire dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Tanti colleghi (come me) hanno mesi, se non anni, di ferie arretrate.
Sono quelli che di notte vengono chiamati da casa, in urgenza, per salvare una persona dall' infarto e vengono pagati con ben 10 euro netti per un' ora (tanto dura un intervento di angioplastica) di lavoro straordinario.
Sono quelli a cui (in tanti ospedali del Nord) non viene fatto il tampone Covid-19 perché insostituibili, specialmente nelle terapie intensive. La nostra soddisfazione-realizzazione non viene dalle istituzioni, che in tutti questi anni hanno distrutto il Sistema sanitario nazionale e hanno demoralizzato e demotivato il personale sanitario, ma dai sinceri ringraziamenti dei pazienti, dal loro sguardo pieno di amore e gratitudine nei nostri confronti. Noi siamo i loro eroi, e loro lo sono per noi.
Grazie.
Un infermiere del Veneto.
Fonte: qui
“PRECIPITA TUTTO DOMENICA PRIMO MARZO. NON LO DIMENTICHERÒ MAI. LA GUERRA”
FATE LEGGERE A CHI SI OSTINA A STARE IN GIRO LA TERRIBILE TESTIMONIANZA DI FABIANO DI MARCO, PRIMARIO DI PNEUMOLOGIA A BERGAMO.
“IN PRONTO SOCCORSO TROVO PAZIENTI OVUNQUE CON POLMONITI GRAVI, CHE RANTOLAVANO. MENTRE L’ITALIA VOLEVA RIAPRIRE LE SUE CITTÀ, IN 24 ORE ABBIAMO CONSUMATO 5MILA MASCHERINE”
“TRA NOI SIAMO A 400 CONTAGI SU 1600. L’IMPIANTO A OSSIGENO È PROGETTATO PER CONSUMARE MASSIMO 8MILA LITRI AL MINUTO. NOI CON LE TERAPIE INTENSIVE NE CONSUMAVAMO DI PIU'...”
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera”
«In fondo al corridoio c' è la stanza del capo dipartimento. Da una settimana è a casa con il coronavirus. La stanza accanto alla mia è di una collega che ha il cognato ricoverato in terapia intensiva. In quella di fronte c' è una cardiologa. Anche sua madre è qui. A Bergamo ogni famiglia piangerà i suoi cari. Non sono io a dirlo, sono i numeri».
Mezzanotte e mezza. Quarto piano della quarta torre del Papa Giovanni XXIII. Il professor Fabiano Di Marco usa i numeri per mantenere una rotta in questo marasma. Ogni frase, una cifra. Nato in Svizzera, cresciuto a Milano, 46 anni, moglie, tre figli. Docente universitario, primario di pneumologia, nell' ospedale diventato un avamposto di questa resistenza al male. Ormai è passato un mese. «Ai miei avevo detto che li avrei raggiunti in montagna. C' erano le feste di Carnevale».
Se lo ricorda quel venerdì 21 febbraio?
«Come fosse ieri. Ma anche come fosse un' altra vita. Fino alle 12, un giorno normale.
Poi mi chiama da Milano il professor Stefano Centanni, il mio maestro: guarda che a Lodi è un disastro. Così, inizio a parlare con i colleghi rianimatori. Sapevamo che le polmoniti da Covid-19 sarebbero toccate a noi».
E dopo?
«Alle 20 ricevo messaggi allarmati dalla direzione. Dobbiamo liberare infettivologia, per essere pronti ad accettare tutti i malati di Covid-19 della provincia. Eseguo. Prendiamo tutti gli altri pazienti e li mandiamo nelle chirurgie, che hanno posti liberi».
Avevate già casi sospetti?
«Molti ricoverati con la febbre, tra i quali un uomo che era entrato in contatto con Mattia, il paziente 1 di Codogno. Domenica pomeriggio il reparto di infettivologia si riempie. Ma è solo tanta gente con tampone positivo».
Quando capisce che è un disastro?
«Precipita tutto domenica primo marzo. Al mattino presto entro al Pronto soccorso.
Non dimenticherò mai. La guerra. Non trovo altra definizione. Pazienti ovunque con polmoniti gravi, che rantolavano. Sulle barelle, nei corridoi. Avevano aperto la sala maxi-afflusso, e anche quella era strapiena. Mentre l' Italia voleva riaprire le sue città, in 24 ore abbiamo consumato 5.000 mascherine filtranti. C' era un panico generale».
Lei come reagisce?
«Alle 8.30 mando un sms sul nostro gruppo, infermieri e medici. Chi può venga qui di corsa. Alle nove abbiamo portato su il primo paziente. La mia caposala era stravolta. Nessuno di noi ha mangiato. Quel giorno è cambiato qualcosa anche nelle nostre vite».
Quando il primo morto?
«Due giorni dopo. Molto anziano, malato. Ma non dovrebbe significare niente».
Eravate già in emergenza?
«La rianimazione Covid-19 che avevamo creato si era riempita. Ma quelle di altre città prendevano pazienti. Solo che chiedevano la positività del tampone. E il San Matteo di Pavia, uno dei tre centri lombardi autorizzati a esaminarli, era sommerso dal lavoro. Così si è creato l' ingorgo».
Come ne siete usciti?
«C' era una parte del blocco centrale dell' ospedale mai aperta e adibita a magazzino.
Non chieda a me come hanno fatto. Alle 13 c' erano ancora i pallet e i pannelli abbandonati. Alle 19.20 ho portato giù il primo paziente da intubare. I bergamaschi, gente tostissima e coraggiosa».
Quanti posti avete creato?
«Martedì scorso i pazienti Covid-19 hanno superato quelli con altre patologie. Sono oltre cinquecento, ormai».
Per i caschi respiratori come avete fatto?
«All' inizio ne avevamo 20. Abbiamo cominciato a cercare. Niente, finito tutto. Sabato 7 marzo mi ricordo che 15 anni fa avevo conosciuto il titolare di una piccola azienda familiare di Levate, che faceva impianti ad ossigeno. Gli telefono: siamo disperati».
Risposta?
«Ne ho dieci, li sistemo e ve li porto lunedì. Lunedì è tardi, lo supplico. Mi faccia chiamare i miei ragazzi, li monto e arriviamo subito, dice. Vergognandomi, gli dico che me ne servono ancora. Lui: mi dia tre ore e gliene faccio altri nove».
E oggi?
«Ne abbiamo 139, siamo l' ospedale più fornito d' Europa. Grazie a lui. Dice che fa solo quel che gli hanno insegnato i suoi genitori. Gente così».
Quanti decessi al giorno?
«Ormai tra 15 e 20. Venerdì 13 marzo il peggiore, finora».
Come è potuto accadere?
«Ne sento tante, dico la mia. Diciannove febbraio, 40 mila bergamaschi a San Siro per Atalanta-Valencia. In pullman, auto, treno. Una bomba biologica, purtroppo».
Ce la fate a reggere?
«All' inizio di questa settimana è venuto l' ingegnere. Ragazzi l' impianto a ossigeno non ce la fa. È progettato per consumare massimo 8.000 litri al minuto. Voi con le terapie intensive ne fate fuori 8.600. Al minuto, ripeto».
Avete trovato la soluzione?
«Lavorando di notte hanno costruito un altro silos che ci fa arrivare a 10.000 litri».
C' è abbastanza personale?
«Abbiamo fatto corsi di formazione. Tremila operatori. Un' ora per spiegare la malattia, un' altra sul casco di rianimazione. E poi in corsia».
La riconversione umana funziona?
«Mi rendo conto che non è facile. Tu sei anatomopatologo oppure un chirurgo, e da un momento all' altro ti viene detto che devi gestire pazienti con una infettività altissima».
Quanti contagi tra voi?
«Siamo a 400 su 1.600».
È così difficile far capire la situazione?
«Sì, anche in ospedale. Ogni reparto è un mondo a sé. Pochi giorni fa mi telefona un medico, caro amico. Sono qui al "tuo" Pronto soccorso con mio padre che ha 88 anni. Ha il coronavirus. Lo raggiungo, tra barelle e confusione. Mi guarda con le lacrime agli occhi: non avevo capito, dice».
Come sta il padre del suo collega?
«È morto».
Nessun commento:
Posta un commento