ALTRI GUAI IN ARRIVO PER L’EX CAPO DELLE MANUTENZIONI DI AUTOSTRADE MICHELE DONFERRI MITELLI, INDAGATO PER IL CROLLO DEL PONTE MORANDI
LA GUARDIA DI FINANZA DI GENOVA HA ACQUISITO ALCUNI VERBALI DEL TESTIMONE DI GIUSTIZIA GENNARO CILIBERTO, RESI NEL 2013 PER UN’INCHIESTA SULLE INFILTRAZIONI CAMORRISTICHE IN LAVORI AFFIDATI AD ASPI E…
Si profilano ulteriori guai per Michele Donferri Mitelli, l' ex capo delle manutenzioni di Autostrade per l' Italia, licenziato da Aspi alla fine di ottobre 2019 e principale indagato nell' indagine sul crollo di Ponte Morandi. La Guardia di finanza di Genova ha acquisito, su mandato della Procura genovese che indaga sul crollo del Morandi, i verbali del testimone di giustizia Gennaro Ciliberto resi alla procura di Roma nel 2013 nell' ambito di un' inchiesta sulle infiltrazioni camorristiche in lavori affidati da Autostrade per l' Italia.
Ciliberto avrebbe chiamato in causa Mitelli: «Ritengo - aveva fatto mettere a verbale Ciliberto - che abbia ricevuto regali costosi e somme di denaro in cambio di agevolazioni, informazioni e protezione in ambito appalti pubblici di Autostrade ».
Il testimone di giustizia Ciliberto aveva rivelato agli inquirenti romani le infiltrazioni della famiglia camorrista Vuolo di Castellammare di Stabia, legata ai clan D' Alessandro e Nuvoletta, in alcuni lavori affidati da Autostrade per l' Italia grazie alle entrature con alcuni membri della società, corrotti con mazzette e orologi di pregio. A interessare gli inquirenti genovesi c' è un aspetto particolare nella vicenda indagata dalla procura romana: i lavori eseguiti dalle ditte vicine alla camorra venivano effettuati con materiali scadenti.
Fra i casi più eclatanti quello del cavalcavia di Ferentino (Frosinone) sulla A1 Roma-Napoli, inaugurato nonostante «la consapevolezza di gravi anomalie strutturali ». Donferri non è indagato nell' inchiesta romana ma in quella genovese sì: è accusato di aver fatto pressioni per comprimere i costi delle manutenzioni e falsificare i rapporti sui viadotti.
IL PONTE SI ERA MANGIATO LA FIBRA
NEL 2015 I CAVI DELLE FIBRE OTTICHE PER MONITORARE IL PONTE MORANDI SI ERANO ROTTI E NON FURONO AGGIUSTATI: LA RIPARAZIONE COSTAVA SOLO 10MILA EURO
IL TITOLARE DELLA “TECNO.EL”, LA DITTA CHE LI AVEVA INSTALLATI: “CI CONTATTARONO, FACEMMO UN PREZZO MA FINÌ TUTTO LÌ. NON AVREBBERO EVITATO IL CROLLO, MA ALMENO AVREBBERO POTUTO…”
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera”
«Andò così: nel 2015 si erano rotti i cavi delle fibre ottiche che collegavano i sensori al sistema di monitoraggio del ponte Morandi. L' avevamo installato noi, il sistema, e quindi Autostrade ci ha contattato per capire quanto costasse ripristinarli. Abbiamo fatto un prezzo ma tutto è finito lì».
Non avete quindi riparato i cavi rotti?
«No».
L' avranno fatto altri.
«Non credo».
Quale era il prezzo?
«Una cosa contenuta, mi pare diecimila euro».
Quando è crollato il ponte, Alessandro Paravicini pensò naturalmente a quei sensori.
La sua società, la romana Tecno.el, li aveva prodotti e sistemati per anni sul viadotto genovese proprio per prevenire rischi legati alla stabilità. Paravicini è così diventato un testimone chiave dell' indagine di Genova sul disastro del 14 agosto 2018, nell' ambito della quale è stato sentito.
Alla notizia del crollo quale fu il suo primo pensiero?
«Pensai che sarebbe stato meglio se il sistema di monitoraggio fosse stato attivo».
Avrebbe potuto evitare il disastro?
«È difficile che il ponte si potesse salvare grazie ai sensori. Si tratta di una struttura isostatica, nella quale l' equilibrio delle forze è particolare. Se una di queste viene a diminuire, il processo di accelerazione del crollo diventa molto veloce e quasi inevitabile. In questi casi i sensori che segnalano il movimento strutturale servono a poco perché i tempi di reazione sono troppo lunghi».
Quali sono normalmente i tempi di reazione?
«Dal momento in cui i sensori registrano la variazione a quello in cui si decide di chiudere il ponte possono passare anche quattro giorni».
Ma allora a cosa servono i sensori?
«A rilevare gli spostamenti nel tempo».
Se il cedimento fosse iniziato tempo prima sarebbe stato captato?
«Sì, in questo caso il sistema sarebbe servito. Ma da quel che è emerso finora mi sembra si tratti di un' ipotesi improbabile. In ogni caso, se era attivo avrebbe potuto dare almeno delle informazioni sulle cause del crollo, agevolando il compito degli inquirenti che le stanno ancora cercando. Il sistema ci avrebbe cioè raccontato se un' ora prima del cedimento era successo qualcosa. Così invece non abbiamo dati».
I sensori hanno mai registrato pericoli?
«No, quando erano funzionanti non hanno mai segnalato importanti variazioni».
Possibile che per risparmiare 10 mila euro abbiano rinunciato a riparare il guasto?
«Non penso proprio che il motivo della rinuncia fosse di natura economica. Forse avevano pensato di far rientrare la spesa nell' intervento più complessivo e strutturale di retrofitting che era stato programmato e che purtroppo non hanno realizzato. Come quando c' è una lavatrice che traballa e non si cambia il pezzo ma si attende di sostituirla interamente».
Sul ponte c' era però di mezzo la sicurezza di chi lo attraversava
«Era per dire dei ragionamenti che si fanno quando si tratta di fare un investimento, per quanto insignificante possa sembrare».
Quando avete iniziato a lavorare sul ponte Morandi?
«La prima installazione è di poco successiva all' intervento di rinforzo degli stralli della pila 11 (anno 1993, ndr) . Era un monitoraggio fatto per la verifica della tesatura dei cavi. Dopodiché il sistema è stato smontato e rimontato più volte, evolvendosi nel tempo, fino all' utilizzo delle fibre ottiche. Ma molti dei punti di misura erano rimasti quelli dell' epoca».
La pila 9, quella crollata, aveva dei sensori?
«Certo, erano collegati attraverso le fibre a quelli installati nella 10 e nella 11, dove esisteva il sistema di trasmissione dati. Sono quelli che avrebbero potuto raccontarci cos' è successo quando il ponte è crollato».
Fonte: qui
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera”
«Andò così: nel 2015 si erano rotti i cavi delle fibre ottiche che collegavano i sensori al sistema di monitoraggio del ponte Morandi. L' avevamo installato noi, il sistema, e quindi Autostrade ci ha contattato per capire quanto costasse ripristinarli. Abbiamo fatto un prezzo ma tutto è finito lì».
Non avete quindi riparato i cavi rotti?
«No».
L' avranno fatto altri.
«Non credo».
Quale era il prezzo?
«Una cosa contenuta, mi pare diecimila euro».
Quando è crollato il ponte, Alessandro Paravicini pensò naturalmente a quei sensori.
La sua società, la romana Tecno.el, li aveva prodotti e sistemati per anni sul viadotto genovese proprio per prevenire rischi legati alla stabilità. Paravicini è così diventato un testimone chiave dell' indagine di Genova sul disastro del 14 agosto 2018, nell' ambito della quale è stato sentito.
Alla notizia del crollo quale fu il suo primo pensiero?
«Pensai che sarebbe stato meglio se il sistema di monitoraggio fosse stato attivo».
Avrebbe potuto evitare il disastro?
«È difficile che il ponte si potesse salvare grazie ai sensori. Si tratta di una struttura isostatica, nella quale l' equilibrio delle forze è particolare. Se una di queste viene a diminuire, il processo di accelerazione del crollo diventa molto veloce e quasi inevitabile. In questi casi i sensori che segnalano il movimento strutturale servono a poco perché i tempi di reazione sono troppo lunghi».
Quali sono normalmente i tempi di reazione?
«Dal momento in cui i sensori registrano la variazione a quello in cui si decide di chiudere il ponte possono passare anche quattro giorni».
Ma allora a cosa servono i sensori?
«A rilevare gli spostamenti nel tempo».
Se il cedimento fosse iniziato tempo prima sarebbe stato captato?
«Sì, in questo caso il sistema sarebbe servito. Ma da quel che è emerso finora mi sembra si tratti di un' ipotesi improbabile. In ogni caso, se era attivo avrebbe potuto dare almeno delle informazioni sulle cause del crollo, agevolando il compito degli inquirenti che le stanno ancora cercando. Il sistema ci avrebbe cioè raccontato se un' ora prima del cedimento era successo qualcosa. Così invece non abbiamo dati».
I sensori hanno mai registrato pericoli?
«No, quando erano funzionanti non hanno mai segnalato importanti variazioni».
Possibile che per risparmiare 10 mila euro abbiano rinunciato a riparare il guasto?
«Non penso proprio che il motivo della rinuncia fosse di natura economica. Forse avevano pensato di far rientrare la spesa nell' intervento più complessivo e strutturale di retrofitting che era stato programmato e che purtroppo non hanno realizzato. Come quando c' è una lavatrice che traballa e non si cambia il pezzo ma si attende di sostituirla interamente».
Sul ponte c' era però di mezzo la sicurezza di chi lo attraversava
«Era per dire dei ragionamenti che si fanno quando si tratta di fare un investimento, per quanto insignificante possa sembrare».
Quando avete iniziato a lavorare sul ponte Morandi?
«La prima installazione è di poco successiva all' intervento di rinforzo degli stralli della pila 11 (anno 1993, ndr) . Era un monitoraggio fatto per la verifica della tesatura dei cavi. Dopodiché il sistema è stato smontato e rimontato più volte, evolvendosi nel tempo, fino all' utilizzo delle fibre ottiche. Ma molti dei punti di misura erano rimasti quelli dell' epoca».
La pila 9, quella crollata, aveva dei sensori?
«Certo, erano collegati attraverso le fibre a quelli installati nella 10 e nella 11, dove esisteva il sistema di trasmissione dati. Sono quelli che avrebbero potuto raccontarci cos' è successo quando il ponte è crollato».
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