venerdì 8 febbraio 2019

Istat. Produzione industriale -5.5% a/a. Beni di Consumo -7.2%.

Operazione anti-accattonaggio

Produzione Industriale.

«A dicembre 2018 si stima che l’indice destagionalizzato della produzione industriale diminuisca dello 0,8% rispetto a novembre»

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«diminuiscono invece in misura marcata i beni di consumo (-2,9%) e l’energia (-1,5%)»

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«Corretto per gli effetti di calendario, a dicembre 2018 l’indice è diminuito in termini tendenziali del 5,5%»

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«un’accentuata diminuzione tendenziale per i beni di consumo (-7,2%) e per i beni intermedi (-6,4%); diminuzioni più contenute si osservano per l’energia (-4,4%) e per i beni strumentali (-3,5%).»

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«dell’industria del legno, della carta e stampa (-13,0%), delle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-11,1%) e della fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-7,9%).»

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Commercio al Dettaglio.

«Su base annua, le vendite al dettaglio registrano una variazione negativa dello 0,6% in valore e dello 0,5% in volume»

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«marcata flessione per le imprese operanti su piccole superfici (-2,2%).»

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Si può distribuire o ridistribuire solo quello che si ha.

Lo stato distribuisce ciò che introita tramite l’esazione di imposte e tasse: ma se la produzione industriale crolla, crollano anche le tasse che prima pagava: entrano sempre meno denari.

Una cosa è promettere ed una ben differente il mantenere.

L’Italia sta vivendo momenti schizofrenici: tutte le componenti politiche sono tese ad annunciare sempre nuovi benefici e sembrerebbero non curarsi di mantenere almeno le entrate.

Il comparto produttivo italiano avrebbe un bisogno disperato di delegiferazione, deburocratizzazione, e di abbattimento consistente delle tasse.

Non si vuole far ciò? Nessun problema: il comparto dapprima produce di meno e quindi chiude.

Le imprese chiuse non possono essere ulteriormente tormentate.

Ma ogni impresa che chiude lascia disoccupati i dipendenti: per lo stato quindi meno entrate e maggiori spese assistenziali.

L’Italia elargisce oltre quattro milioni di assegni assistenziali?

Prepariamoci quindi a finire come il Venezuela, che per un po’ si è goduto il reddito di cittadinanza e poi, finite di mangiare le sementi, ha messo tutti alla fame.

Nota. Quando il comparto produttivo sarà scomparso, oramai è solo questione di qualche anno, l’Italia sarà ecologicamente pura. Lo stato non incasserà più nulla di imposte e tasse e quindi non potrà più dare nulla a nessuno, ivi compresi i cinque milioni di persone che prendono stipendi da stato e parastato. Se è vero che adesso stanno andando alla fame quanti lavoravano nel comparto produttivo, tra poco ci saranno anche burocrati e funzionari.


IstatCommercio al dettaglio

A dicembre 2018 si stima, sia per il valore che per il volume delle vendite al dettaglio, una diminuzione dello 0,7% rispetto al mese precedente. La flessione è sostanzialmente analoga per i beni alimentari (-0,6% in valore e -0,7% in volume) e per quelli non alimentari (-0,7% in valore e in volume).

Nel quarto trimestre 2018, rispetto al trimestre precedente, le vendite al dettaglio registrano un aumento dello 0,1% in valore e dello 0,3% in volume. Le vendite di beni alimentari registrano una variazione negativa dello 0,3% in valore e dello 0,1% in volume, mentre quelle di beni non alimentari aumentano dello 0,2% in valore e dello 0,5% in volume.

Su base annua, le vendite al dettaglio registrano una variazione negativa dello 0,6% in valore e dello 0,5% in volume. Risultano in flessione le vendite di beni alimentari (-0,8% in valore e -1,3% in volume), mentre quelle di beni non alimentari diminuiscono dello 0,6% in valore e aumentano dello 0,2% in volume.

Per quanto riguarda le vendite di beni non alimentari, si registrano variazioni tendenziali eterogenee per i gruppi di prodotti. Gli aumenti maggiori riguardano Altri prodotti (+2,9%) e Mobili e articoli tessili per la casa (+1,9%), mentre le flessioni più marcate si registrano per Prodotti farmaceutici (-3,3%) e Giochi, giocattoli, sport e campeggio (-2,7%).

Sempre a livello tendenziale, il valore delle vendite al dettaglio registra un lieve aumento per la grande distribuzione (+0,2%) e una marcata flessione per le imprese operanti su piccole superfici (-2,2%). In lieve crescita il commercio elettronico (+0,6%).


IstatProduzione industriale

A dicembre 2018 si stima che l’indice destagionalizzato della produzione industriale diminuisca dello 0,8% rispetto a novembre. Nel complesso del quarto trimestre il livello della produzione registra una flessione dell’1,1% rispetto ai tre mesi precedenti.

L’indice destagionalizzato mensile mostra un lieve aumento congiunturale solo nel comparto dei beni intermedi (+0,1%); diminuiscono invece in misura marcata i beni di consumo (-2,9%) e l’energia (-1,5%) mentre i beni strumentali registrano una variazione nulla.

Corretto per gli effetti di calendario, a dicembre 2018 l’indice è diminuito in termini tendenziali del 5,5% (i giorni lavorativi sono stati 19 contro i 18 di dicembre 2017). Nella media del 2018 la produzione è cresciuta dello 0,8% rispetto all’anno precedente.

Gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano a dicembre 2018 un’accentuata diminuzione tendenziale per i beni di consumo (-7,2%) e per i beni intermedi (-6,4%); diminuzioni più contenute si osservano per l’energia (-4,4%) e per i beni strumentali (-3,5%).

Tutti i principali settori di attività economica registrano variazioni tendenziali negative. Le più rilevanti sono quelle dell’industria del legno, della carta e stampa (-13,0%), delle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-11,1%) e della fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-7,9%).

Fonte: qui






Gli altri arrancano, noi crolliamo: ecco perché siamo i peggiori d’Europa (e perché il governo ha sbagliato tutto)


Anche il Winter Forecast della Commissione Europea rivedere al ribasso le stime sulla nostra crescita. Ma c'è di peggio: che è colpa degli investimenti in calo (ancora), e dell'impatto negativo o nullo di Quota 100 e Reddito di Cittadinanza





Possiamo pure raccontarci tutte le palle del mondo, se volete: che sarà un anno bellissimo, che la Commissione Europea ci vuole male, che vanno male tutti quindi è normale si vada male pure noi, che le politiche del governo faranno cambiare verso all’economia italiana. La verità di oggi, messa nero su bianco dalla Commissione Europea nel suo Winter Forecast sull’economia del continente, è che l’Europa rallenta, ma noi di più. Che è il crollo degli investimenti e non quello delle esportazioni ad averci fatto rallentare di nuovo. Che l’effetto delle politiche del governo, quelle per cui siamo stati in ballo per mesi, con affacci dal balcone di Palazzo Chigi e tempeste di spread assortite, è pressoché nullo, se non negativo. Soprattutto, che se non disinneschiamo l’aumento dell’Iva previsto nel 2020 saranno guai seri.

Andiamo con ordine, però. Primo: nessuno va male come noi ed è la mappa del winter forecast a raccontarlo alla perfezione. Siamo l’unico Paese che nel 2019 crescerà meno dello 0,5%. Che sia colpa di Renzi, di Macron o delle cavallette, è un primo dato su cui riflettere, perché si innesta anche col debito pubblico più alto d’Europa. Delle due, una: o la nostra economia è talmente debole che ha bisogno di ancora più debito pubblico per sollevarsi da terra. Oppure, cari amici, cominciamo a chiederci quanto sia utile aumentare ogni anno l’indebitamento per mantenere tutto com’è, senza mai affrontare i difetti strutturali dell’economia italiana. Pensateci su.Seconda questione: il problema del rallentamento italiano è il crollo degli investimenti che “si aspetta diminuiscano bruscamente nel 2019 e rimangano immutati nel 2020”. Tradotto: se cercate il colpevole nei dazi di Trump o nel rallentamento delle esportazioni tedesche siete fuori strada. L’Italia non cresce perché non investe. E non investe perché le tasse sono troppo alte, perché non c’è certezza del diritto, perché abbiamo la peggior burocrazia d’Europa (almeno), perché il costo del lavoro è altissimo (nonostante gli stipendi siano bassi), perché mezzo Paese - quello in cui converrebbe investire - è in mano alla criminalità organizzata. Nessuno di questi nodi strutturali è stato affrontato dal governo in legge di bilancio. Anzi, già che c’erano, i nostri gialloverdi hanno differito tre miliardi di investimenti pubblici previsti per il 2019. Del resto, c’erano da finanziare il reddito di cittadinanza e quota 100. Che volete che sia?

Terzo, per l’appunto: il reddito di cittadinanza e quota 100 non fanno crescere l’economia, nemmeno un po’. L’impatto del reddito sull’economia reale, secondo la Commissione, sarà pari allo 0,1% del Pil. Non male, per una misura che doveva abolire la povertà, rilanciare l’occupazione e fare da volano alle assunzioni delle imprese attraverso l’incentivazione fiscale. Un cannone di coriandoli, praticamente. Peggio ancora va con Quota 100 che riesce nel miracolo di costare un sacco di soldi, sballare i conti dell’Inps, appesantire il fardello che ogni anno ci tocca pagare in pensioni - a scapito di tutto il resto, dalle politiche per la famiglia all’istruzione - per una misura che ha un impatto negativo sull’economia italiana. Negativo, già: perché le imprese - guarda un po’ - non sostituiscono chi va in pensione. Gufacci noi che lo diciamo da mesi.
E già che ci siamo, con le gufate, segnatevi pure questa: che se non disinneschiamo l’aumento Iva da 25 miliardi previsto per il 2020 dall’ineffabile governo del cambiamento, niente ripresa - prevista allo 0,8% - nemmeno per l’anno prossimo. Se vi è passata a voglia di negare la realtà e raccontarvi favole usate questi mesi per rispondere a questa semplice domanda: meglio una tassa patrimoniale, un taglio della spesa pubblica, o la fine ignominiosa del reddito e di quota 100? Pensateci bene, perché per l’anno prossimo il deficit non lo potrete usare nemmeno se alla guida della commissione arrivasse John Maynard Keynes in persona. E non veniteci a dire che non vi avevamo avvertito.

Fonte: qui

Niente ipocrisie: l’Italia è in recessione da 30 anni. Di Maio e Salvini stanno solo accelerando il declino

L'espansione non c’era neanche quando tutti la celebravano. Chiunque s’illuda di “sfangarla” è un illuso: bisogna tagliare la spesa pubblica e quella pensionistica per ridurre drasticamente il carico fiscale sulle imprese e i lavoratori, puntando sulla concorrenza per far emergere i migliori

Sorpresa sorprendente: l’attività economica in Italia è diminuita anche nell’ultimo trimestre del 2018 ed il paese è quindi in “recessione tecnica” come tanti – con il tono dell’esperto che riprese e recessioni se le pappa a colazione, pranzo e cena – amano dire in questi giorni. Dire che l’annuncio dell’Istat non sorprende è inutile non solo perché la –grande o piccola, questo è tutto da decidersi – recessione l’avevamo vaticinata da tempo ma soprattutto perché rimango tutt’ora della medesima opinione che espressi a questo giornale circa 20 mesi fala ripresa o espansione, in Italia, non c’era neanche quando tutti la celebravano. Infatti, in senso – questa volta sì – veramente tecnico una “espansione” dell’economia italiana si vide, l’ultima volta, durante gli anni ’80 e fu il canto d’un cigno ammalato che si drogava con la spesa pubblica a debito. Finita la quale droga – sia per eccesso d’indebitamento che per spreco clientelare della medesima – il cigno ha saputo al meglio rantolare, emettendo deboli striduli quando trascinato dall’espansione, quella sì, dei sistemi economici a cui siamo fortunatamente ancorati grazie alla cattiva Unione Europea ed al malefico Euro.
Questo è successo anche nel periodo 2016-18 quando un’altrui ripresa vera (che durava da tempo nel resto dell’area euro e d’ancor più nel resto del mondo) permise a ciò che rimane di dinamico dell’industria italiana, di recuperare un po’ del terreno perduto negli orribili anni precedenti. Ed ora che quelle riprese rallentano – forse volgono alla fine o forse no: negli USA la crescita dura ininterrotta da quasi 10 anni – l’Italia va in recessione “tecnica”. Ma che questa s’approfondisca ulteriormente nel primo trimestre del 2019 o s’appiattisca nella non-crescita, che tutti ora prevedono per quest’anno, è davvero irrilevante. Come giustamente sintetizzava ieri sera un amico, la cosa importante da capire è che l’Italia, da 30 anni a questa parte, quando va bene è in “espansione tecnica” nel mezzo di una perdurante recessione strutturale. Ragione per cui uno 0,2% in più o in meno fa pochissima differenza e serve solo come arma di distrazione di massa per evitare di fare attenzione alla recessione strutturale in corso, ripetiamolo, da tre decenni almeno. Della quale tutti – governo, opposizione, parti sociali ed editorialisti ufficiali – amano scordarsi in omaggio al patriottismo ipocrita secondo cui bisogna essere ottimisti negando la realtà dei fatti. Drogandosi, insomma.
Quest’ultima osservazione serve anche a dire, con totale franchezza, che i ditini accusatori puntati sull’attuale governo da chi ha governato il paese sino ad un anno fa sono anch’essi il triste prodotto di una dannosa ipocrisia. Per la semplicissima ragione che – se fosse vero, ma non è vero – esiste una relazione causa-effetto immediata fra le politiche economiche di un governo e l’andamento complessivo dell’economia nei mesi seguenti, allora i responsabili della recessione che l’Istat ha appena confermato sarebbero i governi a guida PD, visto che la medesima dura almeno dal Luglio 2018 e s’era già annunciata nel trimestre precedente! Questo governo – quasi certamente – dovremmo considerarlo responsabile del peggioramento della recessione durante l’anno in corso e, soprattutto, delle miserabili condizioni in cui la finanza pubblica italiana si troverà fra dieci mesi, quando arriverà l’ora d’un nuovo DEF. Ma non di quanto sta avvenendo, ripeto, dal marzo del 2018 che le idiozie di Salvini e compagni hanno al più, peggiorato facendo rialzare lo spread e, di conseguenza, i costi di finanziamento delle imprese e delle famiglie.
Inutile quindi strapparsi le vesti sui dati contingenti e sul prevedibile andamento di questo o quel comparto nei primi due semestri dell’anno in corso – dopo di giugno, come ha vaticinato ieri il Presidente del Consiglio, l’economia italiana farà faville, trainata da prepensionamenti e sussidi di cittadinanza . Utilizziamo anche questa occasione, invece, per ripetere sino alla nausea l’oramai trentennale predica inutile: non ritorneremo mai più a crescere e continueremo complessivamente a declinare se non troviamo il coraggio politico collettivo di metter mano ai difetti strutturali che, dalla fine degli anni ’70, han reso l’economia italiana incapace di partecipare al processo di globalizzazione in atto nel mondo e di avvantaggiarsi e contribuire al cambio tecnologico che lo alimenta. L’economia italiana non ha più una vitalità interna, un motore proprio che ne alimenti la crescita – indipendentemente dalla domanda altrui per i nostri prodotti che ancora, ma non per molti anni a venire, sono competitivi sul mercato mondiale – perché l’economia italiana impedisce che quel motore funzioni e quella vitalità possa formarsi.
Tagliare la spesa pubblica e quella pensionistica in particolare per poter ridurre drasticamente il carico fiscale sulle imprese ed i lavoratori, riformare la scuola da capo a piedi per creare forza lavoro produttiva e non chiacchieroni alla ricerca del posto di lavoro garantito a due passi da casa, togliere lo stato ed il suo soffocante controllo burocratico dalla vita economica delle persone e delle aziende. Soprattutto, creare concorrenza, concorrenza e poi ancora concorrenza ad ogni livello perché emerga il merito ed arrivino alla guida del Paese – sia nell’economia che nella politica – i capaci ed i meritevoli invece dei mediocri e dei furbi.
Non c’è assolutamente altra via d’uscita dalla recessione strutturale punteggiata da espansioni tecniche che quella appena riassunta: per massimalista che essa possa apparire a troppe anime pie questo è oggi l’unico realismo possibile. Chiunque s’illuda di “sfangarla” una volta ancora quando verrà primavera è solo un illuso destinato a ripetere gli errori degli ultimi trent’anni ed a sorprendersi delle recessioni prossime venture. Tecniche, ovviamente.
Fonte: qui




Questo governo è il fondo del barile


Maurizio Blondet 


Dunque secondo il labiale,  il primo ministro Conte ha aperto il suo cuore ad Angela Merkel comunicandole le sofferenze dei suoi 5 Stelle.  Più o meno: “ Salvini è al 35-36 per cento. L’M5s è in sofferenza, sono molto preoccupati, loro scendono a 27-26”,  ed ha chiesto alla Cancelliera di aiutarli a individuare “ quali sono i temi che ci possono aiutare in campagna elettorale”.


Quindi   dobbiamo immaginare che la  materna  Mutti,  di cui Conte si fida e confida,  sia stata lei a  consigliare le mosse  cui assistiamo. Votare in commissione per mandare Salvini sotto processo davanti ai giudici di Magistratura Democratica  –  un vero partito fazioso, mai sottoposto al voto popolare,  scatenato alla caccia del “fascista” – è qualcosa che può aiutare nella campagna elettorale. Anche appoggiare  e difendere  Maduro per poi rettificare  e porsi come mediatori  neutrali  ai venezuelani, tra Usa e Russia,  deve averlo consigliato la Angelica, perché fa salire nei sondaggi.  La Trenta che annuncia il ritiro dall’Afghanistan senza avvertire il ministro degli Esteri del suo presunto governo, è un  tocco d’artista quasi insuperabile.
Ma  il colpo di suprema astuzia, la mossa vincente per stracciare nei sondaggio l’alleato-avversario,  è  mettere all’Unesco, fra plurilaureati  filosofi, multilingui scienziati  e storici, Lino Banfi.  Sono sicuro che questo è stato suggerito direttamente a Di Maio dalla Merkel, porta la firma dell’inequivocabile genio strategico della Cancelliera, un genio alla quale essa deve la sua eccezionale longevità politica:  contemporaneamente uno sputo in faccia agli italiani  colti (fra cui i 5Stalle non raccoglie voti), lo scherno all’organizzazione internazionale per a cultura e per sue  tramite alla Nazioni Unite in quanto tali, e  la messa in ridicolo alla  millenaria cultura italiana   ridotta ad essere rappresentata da un comico nemmeno di avanspettacolo (1) . Una scelta  di grande respiro storico e  conferma delle grandi veduta della classe dirigente grillina. Non meno del papocchio – insieme assistenzialista e inefficace – che chiamano assegno di cittadinanza. Dell’appoggio cieco a  qualunque accusa venga dalle  procure, così mettendo (grazie all’abolizione della prescrizione)   la politica sotto il ricatto permanente di una magistratura che ha abbandonato ogni credibilità pur di esercitare il nudo potere in modo parziale e arbitrario. E senza dimenticare il risultato dei no a qualunque industria,  unito alla mantenuta ipertassazione  delle imprese produttive;  impronta dell’inconfondibile lungimiranza grillina, esso sta mettendo in luce la frattura fra il Sud assistito e al distacco di fatto dal Nord Produttivo.  Il  recente accordo  di fusione-acquisizione di Berlino con Parigi,  comprende anche la fusione e autonomia di Alsazia e  Lorena – primizia di quel modello di regionalizzazione che porterà Lombardia e Veneto  a gravitare verso il Moloch economico pantedesco, voltando le spalle (e chiudendo il portafoglio) a  quel resto d’Italia  grillino che non lo sente né  lo tratta come patria comune, dato che ne nega le esigenze.
Uno straordinario esempio di lungimiranza ed assennatezza.  Anche se, poi, il primato dell’imprevidenza  e irresponsabilità grillina è stantemente insidiato, ora dopo ora, da  una qualunque Prestigiacomo che per  dare un calcio negli stinchi a un Salvini, si mette con  Manconi, Fico e   “le sinistre”, parteggia con gli scafisti tedesco-olandesi, e per una minuscola  vittoriuzza di mediatica,   apre le  dighe  alle cateratte dei negri   massacratori che ammazzeranno italiani e  stupreranno italiane  – perché questo sarà l’inevitabile risultato. Salvini  non è il massimo, anzi è il minimo; non è certo all’altezza della situazione storica ;  ma rovesciato lui, sarà l’invasione senza limiti.
Quando poi si vede come Salvini s’incarta, si lascia processare, e viene sfidato da – tenetevi forte – due escort di Berlusca,  uno deve ammettere, in modo definitivo:  ecco perché   l’Italia è stata governata per secoli dagli stranieri, e negli ultimi anni da servi collaborazionisti al soldi  degli interessi stranieri,   che stanno per tornare a governarci dopo la parentesi “populista” che finirà presto, già  vi avverto,  come il popolo rovescia i Masaniello e i Cola di Rienzo che ha scelto ed acclamato come liberatori dal giogo: appesi per i piedi.

Non esiste classe dirigente italiana

E’ semplicemente la constatazione finale di un italiano di 75 anni:  questo popolo non ha classe dirigente.   Non se la dà. Più propriamente, non vuole averla.  Troppo sistematicamente  abbiano dato i voti di massa a gente che di classe  dirigente aveva  solo qualche apparenza comunicativa  e nessuna sostanza, mentre abbiamo trascurato  –  anzi, sospettato,  trattato con scetticismo  e trovato antipatici di quelli che avevano queste qualità.
E non vi parlo dall’alto, non mi chiamo fuori. Al contrario: anch’io ho votato Berlusconi, immaginando in lui le doti di carattere, il senso pratico, la prontezza a  cogliere le occasioni ( e la buona  cultura generale e la sete di informarsi) che siamo soliti attribuire ad un “Imprenditore”.  Per di più, si era circondato a quel tempo da persone valide –   quelle figure  di una classe dirigente potenziale, che sempre si ravvivano di speranza  quando appare un uomo nuovo che promette un rinnovamento politico, e spontaneamente si mettono a disposizione  – per esser poi   feriti e preferiti a nani, lecchini e (diciamolo) pompinatrici di professione.
Che non esista nemmeno una classe imprenditoriale, del resto, lo comprese già Beneduce negli anni 30.  Io lo capii definitivamente nel 2008, quando Berlusca “salvò” Alitalia con una “operazione patriottica” con miliardi di denaro pubblico – affidandola  a “capitani coraggiosi” ossia a imprenditori amici suoi:  che si sono rivelati  incapaci in tutto, tranne nello spolpare  la compagnia aerea del denaro pubblico; quando non ci fu più un euro, la abbandonarono come un guscio vuoto.   Sui Benetton  come imprenditori siamo stati istruiti dopo  la caduta del Ponte Morandi: abbandonato ogni rischio, si sono trasformati in rentiers dei pedaggi, con la complicità dei politici amici di sinistra. De Benedetti,  stessa pasta. Bravissimo a spolpare denaro pubblico, ad attaccarsi alle mammelle di Montepaschi senza mai produrre  nessuna ricchezza, accollando i suoi debiti a noi contribuenti.  Anzi: la specialità dei grandi imprenditori è di dissipare la ricchezza, sprecarla, dilapidare quella che trovano nelle banche  – le quali banche a loro  prestano miliardi  con facilità  inaudita, che quelli non restituiscono, mentre rifiutano fidi da 15 mila euro a piccoli imprenditori capaci.

Dall’altra parte, non crediate  ci sia salvezza. I Monti, i Letta, i Gentiloni sembrano più rispettabili dei Fico e dei Grillo, più preparati di Di Maio,   meno sciammannati di Salvini, ma solo perché eseguono le direttive venute da fuori, da Bruxelles, da Berlino, dalla Clinton, da Draghi, da Soros  –  direttive di cui  loro non sanno nemmeno comprendere le conseguenze – e  quindi hanno   gli incensamenti dei media: ma  sono stupidi come i grillini, delle stesse corte vedute ed egoismi privati,  son mentalmente piccini e  criminalmente  irresponsabili verso la comunità nazionale anche più. Incapaci di pensare in proprio e incapaci di previsione e di visione, a tutti sfuggono i più elementari rapporti di causa ed effetto. Non si vergognano nemmeno dei danni che hanno fatto   –  vanno pontificando contro i governi populisti  – il  che significa che non hanno dignità né carattere: due cose che servono assolutamente ad una classe dirigente.  Confesso di aver sperato  persino, per qualche mese,  in Matteo Renzi il rottamatore.  Buco nell’acqua anche lui.
Adesso il governo giallo verde: ho creduto fosse il governo migliore da trent’anni, un geniale comitato di liberazione nazionale, pronto alla  lotta di liberazione dall’euro. Gli attribuivamo i nostri fini, ad anche la nostra cultura, le nostre letture, le nostre visioni dell’economia e del popolo.  Adesso vediamo che invece non volevano uscire dall’euro, ma fare dell’assistenzilismo a spese pubbliche e fondo perduto,  ed attuare il programma di deindustrializzazione di Beppe Grllo i un paese già deindustrializzato  da vent’annni di Grande Depressione; che sono incapaci di adeguare le loro azioni alle nuove condizioni; che finiscono per affidarsi  Merkel, Mattarella, Draghi. E  dimostrano di essere digiuni di cultura giuridica e politica, di essere (come Salvini) urlatori da Facebook e pastasciutta.
Il punto  è, lettori, che  questo governo giallo-verde  è  il fondo del barile.   L’ultima speranza   che fosse emersa una classe dirigente. Delusa questa speranza, non  resta altro.  Nient’altro che la plebe da discoteca e da cocaina, degli stadi e del  rap.- Il lumpen-proletariato mentale  che nulla sa e nulla vuol sapere.
Quindi, saremo di nuovo governati dal  Draghi e da  Mattarella che sono  già lì ad eseguire  il programma “più Europa”  mentre l’Europa si sta sgretolando e trasformando nel mostro neo-prusssiano.  E l’Italia come popolazione diventare espressione geografica,  sempre più ignorante ed incolta, servile, invidiosa, particolarista e piccina  mentalmente ed eticamente.
A voi giovani coscienti, spetta la dura lotta – molto più dura di quanto credete, per farvi un futuro  di libertà e dignità: non individualmente ma collettivamente migliore, obbligando questo popolo a migliorarsi, dandogli  a forza le ambizioni nobili  che non ha più  – anzi che non ha mai avuto, se non fa  infime minoranze eroiche.
Io, come vecchio nonno, ormai rinuncio.  Nei tempi di oppressione che tornano, faccio  finché posso il commento, e  basta. 

La decrescita agli inferi del paese che si autoinganna a morte

Nel quarto trimestre 2018, la stima preliminare del Pil italiano indica una contrazione dello 0,2%, peggiore delle attese, poste a -0,1%. A livello annuale, corretto per i giorni lavorati, la crescita italiana segna un imbarazzante +0,1%. In attesa della disaggregazione puntuale, a inizio marzo, sappiamo che la domanda interna ha fornito nel trimestre un contributo negativo, mentre quella estera netta ha aggiunto crescita. Ma quello che davvero sappiamo è che l’Italia sta dirigendosi verso gli scogli, in splendida solitudine.

La Francia, per non fare nomi, cresce nel trimestre dello 0,3%, malgrado i casseur chiamati Gilet Jaunes. E la domanda interna transalpina non si contrae, mentre anche in questo caso l’export sostiene la crescita. La Spagnamette a segno il suo ormai abituale +0,7% trimestrale, per un +2,4% annuale. La Germania non ha ancora reso noto il dato trimestrale, ma sappiamo già da ora che non sarà comunque negativo.
L’Italia è in contrazione, unico tra i grandi paesi europei. Questa contrazione è frutto non solo e non tanto di tensioni esterne, come quelle protezionistiche, o della filiera automotive europea che sta ancora cercando di venire a capo dei nuovi test di omologazione oltre che della crisi esistenziale del diesel.
No, non è solo questo: l’Italia paga un prezzo carissimo alla politica economica dilettantesca, vandalistica e criminale che questo esecutivo e questa maggioranza perseguono su base sistematica. La fortissima incertezza generata su base domestica, con l’aumento dello spread, le misure autolesionistiche sul mercato del lavoro, la creazione di un clima ostile all’impresa e centrato su un assistenzialismo distruttivo, l’accensione di un’ipoteca devastante sui conti pubblici, con misure di esplosione della spesa corrente che sono prive di copertura, dopo il 2019.
La spada di Damocle di un aumento monstre delle imposte indirette nei prossimi due anni, che finirà a lasciare il posto a nuovi tributi patrimoniali, per mancanza di alternative.
Nel frattempo, è tutta un’azione di brainwashing di massa, orchestrata da piccoli Goebbels che si aggrappano a idiozie come il signoraggio, il Protocollo dei Savi di Sion, o a manovre diversive come l’alimentazione di un razzismo di massa o un nazionalismo stupidamente aggressivo contro i nostri maggiori partner commerciali e politici europei. Su questa azione di programmazione di menti deboli e semplici, l’azione indecente di giornalisti fiancheggiatori, con le loro testate ed i loro momenti di liquame televisivo.
Su tutto, il tradizionale vittimismo italiano, quello che ben conosciamo nella storia, e una propensione a mentire e manipolare la realtà che sta raggiungendo livelli deformi di narrazione distopica. Ogni giorno ha una giustificazione ed un alibi: è stata la Bce che non ci aiuta, è stata la Commissione europea, c’è un piano europeo per distruggerci, se solo potessimo stampare moneta faremmo tremare il mondo.
Un presidente del consiglio che è l’epitome di questa farsa tragica, che va in un consesso internazionale e si dice convinto che l’Italia potrà crescere di 1,5% nel 2019. Pochi giorni dopo si reca a parlare con gli imprenditori di una delle regioni-traino del paese, e dice che per qualche mese sarà stagnazione ma la colpa è di fattori esterni e comunque nel secondo semestre ripartiremo. Servirebbe maggiore rispetto di sé, come prerequisito per rispettare gli interlocutori. Ma questo è oggi il mainstream italiano.
In questo clima, prosperano nullafacenti colpiti da improvviso benessere, faccendieri ripuliti ma neppure troppo, millantatori, accademici falliti che sognavano da una vita la loro rivincita. Tutti con un solo programma: mentire ossessivamente e manipolare, come neppure negli scritti di Orwell troverete riscontro.
Un paese alla deriva, una drammatica deriva che sfocerà in tragedia, se e quando vi sarà una recessione a livello internazionale. Sarebbe assai blando risarcimento, se mestatori e manipolatori fossero puniti da quelle stesse anime semplici risvegliate furiose dalla manipolazione. La verità è che è più probabile che il fallimento di questi creerà un nuovo ceppo batterico resistente ad ogni antibiotico, fatto di una involuzione ancora più profonda, che condurrà a forme ancor più deleterie di fasciopopulismo e renderà l’Italia un caso unico di regressione civile nel mondo sviluppato. Fonte: qui

Banche, Moody’s avverte Tria: con recessione duratura danni al capitale

L’agenzia di rating Moody’s lancia l’allarme sui rischi di una recessione prolungata. Se dovesse durare per altri trimestri ci saranno conseguenze negative per le banche italiane

Banche, Moody's avverte Tria: con recessione duratura danni al capitale
Il contesto economico è importante, e se la recessione tecnica diventa contrazione duratura del Pil ci saranno conseguenze per le banche italiane. È chiaro il messaggio che Moody’s lancia al governo: non sottovalutare il rallentamento dell’economia. Se la recessione si rivela ostinata, e dunque dura per altri trimestri, aumenteranno i prestiti non performing e, alla lunga, ci saranno effetti sul capitale bancario.

Il contesto negativo italiano aumenta i rischi per le banche

L’avvertimento dell’agenzia di rating assume contorni ancora più foschi alla luce delle previsioni di crescita del Pil italiano da parte della Commissione Europea, pericolosamente vicine allo zero. Lo 0,2% in più del Pil nel 2019, inoltre, grazie alla manovra approvata a Dicembre e al Decretone che ha reso legge Quota 100 e reddito di cittadinanza, sarà conseguito con l’incremento di consumi privati, e in misura solo minore con gli investimenti.
Il Ministro di Economia e Finanze Giovanni Tria ha speso molte parole nelle scorse settimane per rassicurare investitori internazionali e istituzioni sulla solidità del sistema finanziario ed economico. E anche oggi si è detto ottimista, precisando come l’intento del Mef sia quello di attuare le politiche economiche dell’esecutivo, piuttosto che ripensare a eventuali manovre correttive.
Un’iniezione di fiducia senz’altro necessaria per tranquillizzare gli operatori, ma il rischio, come dimostrano ancora gli effetti della crisi economica del 2008, è sempre sul lungo periodo. Ma perché sarebbe proprio il comparto bancario italiano a correre particolari rischi, se è l’intera economia europea a rallentare?

L’allarme di Moody’s per gli istituti di credito

L’allarme viene lanciato in un report diffuso da Moody’s nella giornata delle trimestrali del comparto bancario italiano. Lo stock dei non performing loanè oggi pari a 200 miliardi di euro, un livello altissimo rispetto agli 80 miliardi del 2008, quindi non servirebbe una crisi altrettanto funesta - è il messaggio fra le righe - per scatenare conseguenze negative. Il picco di Npl è stato toccato nel 2015, con 340 miliardi di euro: tutti gli istituti ne sono stati colpiti, e qualcuno è fallito. L’afflusso è tornato a livelli pre-crisi 2008 solo lo scorso anno, ma l’aggravarsi della situazione attuale non permetterebbe alle banche di operare le strategie di de-risking con conseguente incremento di Npl.
Una grave recessione rappresenterebbe, insomma, una minaccia per gli istituti di credito poiché essi operano in un contesto interconnesso, che deve mantenersi solido affinché l’appetito degli investitori rimanga sostenuto. Per tali ragioni Moody’s sottolinea come la situazione economica favorevole sia fattore necessario per mantenere alta la propensione a investire negli Npl.
In questi giorni i principali istituti di credito (UnicreditIntesaMPSMediobancaBanco BPM) hanno rilasciato le trimestrali (quasi tutte positive) relative all’ultimo trimestre del 2018. Fonte: qui

Le panzane non sono un’esclusiva pentastellata

Smontare le panzane di almeno uno visto ch’è impossibile farlo con mille. Perché questo? Per caso, perché stasera ho un’ora da dedicarci. 
L’informazione italiana, oramai, è una specie di circo in cui viene pubblicato “quasi di tutto” con un comun denominatore: il rigetto, la negazione, infatti il disprezzo, per quello che comunemente chiamiamo “cultura” o “scienza” o “ricerca accademica”. Questo arrogante rigetto/disprezzo porta al potere mediocrità ed avventurismo, che distruggono il paese.
Questo fenomeno è particolarmente accentuato nel campo dell’economia dove il mio “quasi tutto” va inteso come: tutte le follie possibili ma quasi mai qualcosa di sensato. Da circa un decennio (era iniziato prima: questo blog nacque come reazione all’andazzo che osservavamo già nel 2005) il tema dominante è diventato: i “professori” sono una banda di inutili che non hanno capito niente dei sistemi economici, vi spieghiamo noi come funzionano. L’abbiamo appreso alla celebre “università della vita”. Il caso più frequente è, come sappiamo, quello del sovranista o grillino o leghista che ci spiega ogni due secondi che il “dogma neoliberale” propagandato dai “professori” è una menzogna mentre la verità è quella cosa che lui/lei ha appreso sulla base dell’esperienza personale. L’università della vita, insomma, la stessa frequentata dalle Castelli, dai Toninelli, dai Rinaldi, i Siri e così via.

Ma c’è anche la versione “imprenditoriale”, tipicamente rappresentata da persone che, avendo avuto un qualche successo nella propria attività aziendale, ritengono di aver anche capito come funzionano le opzioni asiatiche, lo sviluppo economico o la creazione della moneta dal nulla, e ce lo spiegano. O dal dirigente bancario che ha cooperato al fallimento della sua banca, è stato licenziato per questo ed ora è diventato una celebrità popolare spiegando che il debito pubblico è un furto organizzato da menti criminali, ovviamente guidate da qualche “professore”. Impossibile fermare questa enorme tsunami di cazzate, assolutamente impossibile. Ragione per cui articoli come questo non si scrivono di certo nella speranza di ristabilire un po’ di fatti e logica ma per puro divertissement, perché uno dei mille “articoli” prodotti dal laureato in vitalità è riuscito ad essere così offensivo da giustificare la perdita di un’ora o due di lavoro per provare che è solo una sequenza di arroganti stronzate.

1) Gli investimenti non dipendono dal costo del capitale investito. Motivazione? Lui ha visto aziende che mantengono i propri programmi d’investimento a fronte di aumenti dei tassi d’interesse passivi. Il nostro non riesce a capire la differenza fra imprese marginali ed inframarginali (qui un breve video didattico che spiega il concetto): secondo lui gli “economisti” teorizzerebbero che TUTTE le imprese riducono gli investimenti quando aumenta il costo del finanziamento. Ovviamente non ha capito nulla: SE tutte le aziende tagliassero gli investimenti quando aumentano i tassi “di qualche punto” (quanti punti? 2,3,5?) non ci sarebbero recessioni dove il PIL diminuisce del 2% o del 4% ma catastrofi continue! Sono le imprese marginali (graziaddio una minoranza) che soffrono dell’aumento dei tassi mentre le inframarginali ne soffrono meno, progressivamente meno più “infra” sono. Non è difficile arrivarci ma … Questo per quanto riguarda la “teoria economica” e la logica. 
Poi vengono i fatti e qui non saprei dove cominciare. Che vi sia una insurrezione d’imprenditori ogni volta che i tassi reali salgono è, apparentemente, un’invenzione degli economisti. La recessione del 1982 – un caso da libro di testo dell’effetto che aumenti repentini dei tassi hanno sull’attività d’investimento – è evidentemente una bufala propagandata da professori di NYU. Che le imprese italiane nel 2011-12 si siano trovate di fronte ad un aumento dei tassi reali che ha generato la peggiore recessione del dopoguerra è un’invenzione dei redattori di noiseFromAmerika. Come vedete non sto citando letteratura tecnica, complicati papers econometrici che stimano questo o quello – tipicamente: che (i) l’impatto dei tassi che crescono è molto molto maggiore di quello dei tassi che calano, il quale probabilmente non esiste … ma all’università della vita son sempre lì a chiederne ulteriori riduzioni per “stimolare” l’economia e che, (ii), l’impatto negativo di una crescita dei tassi è visibile, appunto, sulle imprese marginali con scarse risorse proprie – ma banali dati storici noti a tutti. E potrei ovviamente continuare per ore: cosa è successo in Argentina quando i tassi sono schizzati? Cosa successe alla domanda di credito negli USA tra il 2008 ed il 2009 quando, a causa della crisi finanziaria i tassi praticati dal sistema finanziario ai debitori schizzarono di vari punti? Eccetera.

2) Migliorare la fiscalità non indurrebbe un maggior numero d’imprese ad investire in Italia. Perché? Perché secondo questo signore le imprese localizzano gli “investimenti in funzione della prossimità ai clienti e fornitori, costo e flessibilità del lavoro e dimensione aziendale.” Ha scritto proprio così. La logica elementare anzitutto. “Migliorare la fiscalita'” è termine ambiguo ma suppongo intenda dire ridurre il costo complessivo della fiscalità (adempimenti ed imposte/tasse varie) sull’attività d’impresa. Apparentemente una “roba” che (in Italia) costituisce tra il 40% ed il 70% del costo finale del prodotto non influenza le decisioni aziendali! Se quel costo si riducesse del 50%, secondo questo signore, non succederebbe niente. Eh sì, perché l’ardita frase non ha né quantificatori né numeri, è “generale” e costui non si rende conto che nella “fiscalità ” per un’impresa non ci sono solo IRES, IRAP ed altri balzelli direttamente caricati all’impresa ma c’è, soprattutto, la fiscalità che ricade sul costo del lavoro sia nella forma di IRPEF che nella forma di contributi per pensioni e sistema sanitario. La qual cosa ci porta a notare che il nostro si dà torto da solo nel giro di poche parole visto che ritiene il costo del lavoro sia importante! Ed il costo del lavoro è forse indipendente dal carico fiscale? Cosa poi voglia dire “dimensione aziendale” lo sa iddio ma provo ad indovinare. Vuol dire che se sei medio-grande (un numero a caso: più di 500 occupati) allora ALCUNI dei tuoi investimenti li fai ANCHE tenendo conto dei costi di trasporto da e per. Certo, anche (ci torno nel prossimo paragrafo). Ma si dà il caso che di imprese con meno di 500 occupati ve ne siano “molte” e che “molte di più” potrebbero esserci se, appunto, la fiscalità non le avesse fatte fuggire. Ma lui non l’ha notato …
Ed infine la collocazione da e per. Dev’essere per quello che Amazon ha la sede principale a Seattle ed ha cercato le migliori condizioni fiscali, burocratiche ed ambientali per il suo secondo headquarter. E dev’essere per quello che dozzine di aziende “digitali” hanno la loro base europea in Irlanda, perché l’Irlanda è vicina a clienti e fornitori. E, di nuovo, dev’essere per quello che la FCA ha lasciato Torino: per essere vicina a clienti e fornitori. E l’industria degli occhiali ha chiuso dozzine di fabbriche nel bellunese perché, dopo decenni, era diventato troppo “lontano” da clienti e fornitori … la geografia evolve. Tutti questi paesi, europei e non, che cercano di attirare investimenti riducendo imposte e burocrazia (vedi sotto) sono governati da pazzi che perdono il loro tempo: dovrebbero dedicarsi a spostare l’intero paese “vicino a clienti e fornitori” per attirare imprese … ditelo agli svizzeri, agli austriaci, ai taiwanesi, ai coreani, ai … La parte più comica, qui, è che a un certo punto elenca una serie di imprese italiane che hanno spostato le loro sedi altrove e considera tale scelta “logica” ma, secondo lui, la logica non è né di costi, né di fiscalità, né di burocrazia. No, è di immagine!

3) Poi c’è la storiella del Sud Italia e qui non si capisce cosa voglia dire. Riesce a contraddirsi da solo così tante volte che, seguendolo, m’è venuto il capogiro. Al Sud non si investe perché c’è l’illegalità diffusa, il costo del lavoro è troppo alto (appunto: fiscalità, fra le altre cose), personale inamovibile, giustizia “politicizzata” (al Nord invece no :)): ma queste cosa sono se non le forme visibili e concrete attraverso cui si manifesta la follia burocratica italiana ed il dissesto della PA, particolarmente pronunciato al Sud? E se il Sud d’Italia è “periferico” come il Nord della Svezia (ha scritto davvero questo, giuro: periferico rispetto a cosa?) che dire dell’Islanda? Di Taiwan PRIMA che la Cina iniziasse a crescere, della Nuova Zelanda dell’Almeria o … dei paesi Baltici? Il mio amico e collega Carlo Amenta, siculo doc e pure professore d’economia in Palermo, mi ha pregato di far sapere che: “Comunque in caso lo ringrazi da parte mia perché sta cosa che il sud dell’Italia è come il nord della Svezia stamattina mi ha fatto svegliare più sicuro di me perché mi vedo biondo”. E questo chiude la discussione su questo punto.

4) Irrilevanza dell’educazione economico-finanziaria. Non è ben chiaro perché mai si soffermi su questo particolare punto, oggettivamente secondario in the great scheme of things, ma anche in questo caso riesce a scrivere assurdità contraddittorie. Sua teoria: meglio non far acquisire agli Italiani un’educazione economico-finanziaria adeguata perché, in quel caso, finirebbero per investire meno in debito pubblico e più in azioni … Ahem, ma non è esattamente questo il problema? Finché la grande maggioranza degli italiani continua a pensare che fare debito pubblico a go-go sia salutare continueranno sia a finanziarlo (non sembra sia il caso ultimamente, ma transeat) che ad accettare che le banche, dove mettono i loro risparmi, ne abbiano i portafogli pieni, sia, SOPRATTUTTO, a VOTARE per partiti guidati da avventurieri che predicano spesa pubblica (= tasse + debito) come strumento per la crescita! Visto che, giusto poco sopra (questa cosa dell’educazione finanziaria viene verso la fine dell’articolo) l’autore ha argomentato che la dimensione del settore pubblico è uno dei due grandi ostacoli alla crescita (l’altro essendo che la Sicilia assomiglia alla parte artica della Svezia …) siamo al perfetto corto circuito logico. E, come ho prima ricordato, Pseudo-Scotus ci insegnò che ex contradictione (sequitur) quodlibet … libet, appunto.

Veniamo poi alla chiave di tutto. Scrive il nostro che “l’impossibilità che il Pil dell’Italia cresca” deriva dal fatto che esiste “impossibilità pratica d’investire al Sud e dal peso abnorme del settore pubblico”. A quel punto mi sono dato due sberle per svegliarmi. Ma il peso del settore pubblico non è misurato, forse, da due cose: tasse e deficit? La somma dei due dà, per definizione, la spesa pubblica e se questa è alta devono essere alte anche le prime due, no? Ma allora come la mettiamo con la fiscalità che non c’entra? E con la burocrazia che, come ci spiega verso la fine, è un “non problema” per le imprese che se la gestiscono (a costo zero?) convivendoci? E se è vero, come è vero, che l’attività produttiva privata è diventata una quota sempre minore del Pil nazionale a causa della crescita del pubblico e di altre attività inefficienti che il pubblico protegge o controlla, non ritorniamo forse alla questione fisco/spesa e burocrazia, ovvero servizi pubblici di cacca? Questo signore riesce a capire che da “A&-A” possiamo argomentare quel diavolo che vogliamo ed anche l’opposto o no? 
Certo che il Pil non cresce se il settore produttivo privato si riduce continuamente MA questo avviene perché … vedi sopra! Ed il debito pubblico conta, signor mio: SE, come dice, questo assorbe una gran fetta delle risorse del sistema bancario ne segue logicamente che quest’ultimo ne ha meno per le imprese produttive. Le quali – ci mancherebbe! – ovviamente non investono in debito pubblico ma, se devono cercare all’estero la fonte di finanziamento … ci spostano anche l’attività. Non è proprio molto difficile da capire, no? In questo caso sembra di sì.
Basta, mi son annoiato, l’ora e mezza è passata e credo il punto sia chiaro. Se non lo fosse lo ripeto: certe cose non andrebbero né scritte né tantomeno pubblicate, men che meno sul principale giornale economico del paese. Bisogna evitare di ragliare in pubblico con tanta arroganza – sì arroganza: quando sproloqui con sicumera di cose che non hai capito, contraddicendoti ogni poche righe, fai un esercizio di arroganza – perché fa danno. Mai scordarsi del capitolo 7 del Trattato …

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