NELL'ACCORDO CI SONO INFRASTRUTTURE, TELECOMUNICAZIONI E FINANZA. OVVERO CIO' CHE È STRATEGICO
MA ROMA VALE MENO DELL'8% DEGLI AFFARI TRA UNIONE EUROPEA E PECHINO
(ANSA) - "Operiamo per un futuro di crescita e sviluppo e il memorandum con la Cina offre preziose opportunità per le nostre imprese", dice il premier Giuseppe Conte al Corriere della Sera sull'intesa con Pechino: il testo, "imposta la collaborazione in modo equilibrato e mutualmente vantaggioso", in una cornice "trasparente". E' "perfettamente compatibile" con la nostra collocazione nella Nato e nel Sistema integrato europeo: "Nessun rischio di colonizzazione", precisa Conte.
(ANSA) - "Non voglio che l'Italia sia una colonia di nessuno. Studiamo, lavoriamo, approfondiamo, valutiamo...". Lo ha detto il vicepremier Matteo Salvini, rispondendo a una domanda sul memorandum d'intesa con la Cina al termine della presentazione delle celebrazioni dei 500 anni dalla morte di Leonardo. "Il memorandum con la Cina? Ne stiamo parlando. Se sono preoccupato? Non sono preoccupato" dice il vicepremier ai cronisti. "Se si aiutano le imprese italiane a fare business e a esportare i nostri preziosi prodotti io son contento. Però ovviamente c'è da valutare la sicurezza nazionale. Non voglio - afferma - che l'Italia sia una colonia di nessuno. Studiamo, lavoriamo, approfondiamo, valutiamo..."
(ANSA) - "E' certamente una opportunità ma prevalgono in questo momento i rischi. Ieri nel Parlamento europeo è accaduta una cosa positiva, ha approvato un documento che dice attenzione alla Cina perché c'è in atto una sfida sul piano commerciale ed economico. E fa intravedere che la sua è una sfida anche sul piano politico e anche militare". Lo afferma il Presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ai microfoni di Mattino 5, intervenendo nella polemica sulla Via della Seta.
Andrea Bassi per “il Messaggero”
Il senso politico del documento, è probabilmente quello contenuto nel secondo paragrafo al terzo punto, sotto il titolo: «Rimuovere ogni ostacolo al commercio e agli investimenti».
Si legge, testualmente, che le controparti si impegnano a «opporsi all' unilateralismo e al protezionismo». Cina e Italia, insomma, nel loro memorandum of understanding, l' accordo che la settimana prossima il presidente del Celeste impero, Xi Jinping, dovrebbe firmare con il primo ministro Giuseppe Conte, dichiareranno congiuntamente la loro opposizione alla dottrina Trump.
Al netto della sfida per la supremazia tecnologica che il presidente americano sta combattendo a furia di veti imposti agli alleati perché non usino i prodotti dei due colossi cinesi Huawei e Zte, il vero rischio per gli Usa è spingere il mercato europeo nelle braccia di Pechino.
Già a Davos, nel 2017, con Trump che annunciava la fine degli accordi di libero scambio, Xi si era eretto ad alfiere della globalizzazione con la sua Belt and Road, la via della Seta appunto. I quattro paragrafi del Memorandum sono ricchi di principi, ma anche di progetti concreti. Da subito, tuttavia, messo nero su bianco l' impegno ad appoggiare «le sinergie tra la via della Seta e le priorità identificate nel Piano di investimento per l' Europa e le reti trans-europee».
LE PRIORITÀ
Se la priorità è far arrivare le merci nel Vecchio continente, servono porti, strade e ferrovie veloci, come quelle inserite da Bruxelles nelle reti Ten-T (più volte citati). Compresa la Tav, la Torino-Lione, parte integrante del Corridoio Mediterraneo, il collegamento che passa dalla Spagna e della Francia per poi attraversare le Alpi nell' Italia settentrionale in direzione est, toccando la costa adriatica in Slovenia e Croazia, per proseguire verso l' Ungheria. Il Memorandum, insomma, è un sostegno alla costruzione dell' opera.
Il paragrafo delle «aree di cooperazione» tra Italia e Cina è corposo. «Le controparti», c' è scritto, «collaboreranno allo sviluppo della connettività delle infrastrutture, tra cui investimenti, logistica e interoperatività nelle aree di interesse reciproco (come strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia - tra cui fonti rinnovabili e gas naturale - e telecomunicazioni)».
L' unico riferimento alle reti di comunicazione elettronica, e dunque alla spinosa questione del 5G, è contenuto in questa parentesi. Per il resto, nel documento, non ci sono altre tracce di possibili collaborazioni. Che tuttavia sono nei fatti. Il governo italiano ha fatto sapere a Washington che non bloccherà Huawei, le cui apparecchiature sono già in uso dai grandi operatori delle telecom italiane e sono state scelte dallo stesso governo per la rete per il WiFi pubblico. È poi contenuto un impegno, centrale per i cinesi, a semplificare al massimo i controlli doganali delle merci. C' è invece un altro passaggio che, probabilmente, non è passato inosservato per gli americani. È il capitolo che parla dell' ambiente.
I PUNTI DELICATI
Le parti, spiega il Menorandum, «collaboreranno nel campo della protezione ambientale, dei cambiamenti climatici ed altre aree di reciproco interesse», impegnandosi tra le altre cose, «a promuovere attivamente le direttive dell' Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici». Proprio quegli accordi dai quali Trump ha ritirato l' America.
Nel testo, poi, è prevista anche una collaborazione finanziaria. «Le controparti», si legge, «favoriranno il partenariato tra le rispettive istituzioni finanziarie per sostenere congiuntamente la cooperazione in materia di investimenti e finanziamenti, a livello bilaterale e multilaterale e verso paesi terzi, nell' ambito delle iniziative della via della Seta». Una clausola che potrebbe permettere ai cinesi di investire in infrastrutture in Italia. La connettività, secondo il Memorandum, riguarderà anche le persone. Saranno favoriti gli scambi tra università, in materia di salute e di turismo.
L' ultimo paragrafo, tuttavia, ricorda che quello che Cina e Italia si apprestano a firmare non è un trattato e non ricade sotto la legge internazionale. Dunque non c' è nessun impegno legale. Ma nemmeno lo si può considerare un accordo scritto sulla sabbia.
Roberta Amoruso per “il Messaggero”
Impossibile oggi non fare affari con Pechino. Lo sanno bene i Paesi europei che devono fare i conti con il rallentamento dell' economia e che più degli Stati Uniti di Trump devono contare sulle prospettive e gli investimenti del Dragone per far tornare i conti sul Pil.
Ma l' Italia ha decisamente un motivo in più per irrobustire i ponti con Pechino. Lo dicono i numeri degli scambi.
Ma anche quelli degli investimenti. Se dunque nel 2017 i Ventotto hanno esportato verso la Cina merce per 198 miliardi, a fronte di un importato per 375 miliardi, il nostro Paese ha venduto ai cinesi oltre 13 miliardi di prodotti secondo i dati della Farnesina (20 miliardi per il dato lordo dell' Ice). Vale a dire meno dell' 8% della merce Ue che ha raggiunto il Paese asiatico.
Lì dove il dato complessivo dell' interscambio Italia-Cina arriva a 42 miliardi, in crescita del 9,2% rispetto al 2016, con un deficit commerciale italiano che continua a ridursi ma rimane sostanzioso. La consolazione è che l' Italia mantiene il quarto posto sia tra i Paesi esportatori che tra quelli importatori dalla Cina. Ma può fare molto di più. Basta dire che Parigi rimane davanti a Roma e che Berlino, il primo partner europeo del Dragone, è ben più avanti con esportazioni per oltre 90 miliardi.
Un gap profondo che potrebbe ridursi in maniera sostanziosa se davvero si alimentasse il flusso degli investimenti.
GLI INVESTIMENTI
Il punto è che la zampata del Dragone rimane comunque tra le principali preoccupazioni dell' Europa. E soprattutto degli Usa, visti i toni raggiunti in vista del Memorandum sulla Nuova Via della Seta. Così si spiega la cautela di Bruxelles e, soprattutto di Paesi come Germania e Francia, ad aprire un varco troppo ampio a Xi Jinping.
Per i francesi la soglia psicologica per tirare il freno a mano sono state la vendita ai ricchi capitalisti cinesi di oltre cento dei loro pregiati chateaux e poi di migliaia di ettari di suolo nazionale coltivato a grano. Per i tedeschi, invece, la linea è stata tracciata dalla cessione di circa il 10% del gruppo Daimler (Mercedez-Benz) al gruppo Geely che già nel 2010 si è presa Volvo e corteggia gli asset più glamour di Fca. Poi la guerra dei dazi e la Brexit hanno giocato la loro parte.
E così la stretta europea sugli investimenti del Dragone si è fatta sentire nel 2018 segnando un forte rallentamento del flusso di yuan tradotti in dollari pari al 70%, secondo l' ultimo studio di Baker McKenzie. In moneta contante, gli Fdi (Foreign Direct Investment) di Pechino in Europa, Svizzera compresa, sono crollati dagli 80 miliardi di dollari del 2017 ai 22,5 miliardi nel 2018. Tenuto conto però, che nel 2017 la parte del leone l' aveva fatta l' acquisizione della svizzera Syngenta da parte di ChemChina, per 43 miliardi di dollari, il calo sembra più di facciata che sostanziale e, a ben vedere, non riguarda nemmeno grandi Paesi Ue come Francia e Spagna.
Anzi, Francia, Germania, Spagna e Svezia hanno visto crescere gli investimenti cinesi anche nel 2018. A fronte di un calo del 21% per l' Italia che ha attratto investimenti per soli 800 milioni di dollari. Un duro colpo lo ha ricevuto il Regno Unito, tradizionalmente un Paese amato dagli investitori cinesi.
Ma nonostante il crollo del 76% (dai 20,33 miliardi del 2017), con i suoi quasi 5 miliardi, Londra rimane la preferita dalle aziende cinesi pubbliche e private. Segue a ruota la Svezia con 4,05 miliardi e una crescita quasi triplicata degli investimenti (+186%). In terza posizione c' è la Germania che ha visto arrivare 2,52 miliardi di dollari (+34% dai 1,89 miliardi del 2017). Non solo. Il 2018 sembra l' anno in cui i capitalisti cinesi hanno scoperto le opportunità, fiscali e non solo, offerte da piccoli Paesi Ue come il granducato del Lussemburgo e il regno di Danimarca.
Tanto che il primo ha incamerato ben 1,87 miliardi di dollari in investimenti (+1.000% rispetto ai 100 milioni del 2017) posizionandosi saldamente davanti a Francia, Spagna e Italia. Da parte sua, la Danimarca ha toccato i 1,1 miliardi (+1000%). E perfino il gruppo dei Paesi dell' Est europeo ha fatto il pieno dall' Ungheria (+185%), alla Croazia (+355%) alla Polonia (+162%). Difficile ignorare certi numeri e quanto l' Italia sia rimasta indietro.
Fonte: qui
WASHINGTON CHIAMA, SALVINI RISPONDE - LA LEGA FRENA SULL'ADESIONE DELL’ITALIA ALLA “BELT OF ROAD INITIATIVE” DELLA CINA
DALLA CASA BIANCA SONO ARRIVATE PRESSIONI SUL GOVERNO E ORA I TECNICI SONO AL LAVORO PER CORREGGERE IL DOCUMENTO IN VISTA DELL’ARRIVO IN ITALIA DI XI JINPING
LE INFRASTRUTTURE, IL 5G, LE CONNESSIONI DATI E IL CONTROLLO DEI CAVI SOTTOMARINI: ECCO COSA E’ IN BALLO
IL RISCHIO DI FINIRE STRITOLATI DALLA COMPETIZIONE TRA USA E CINA…
LA LEGA FRENA: TESTO DA RIVEDERE E ORA LA FIRMA CON XI È A RISCHIO
Marco Conti per “il Messaggero”
«Rinviare». Nella Lega ne sono ormai tutti convinti. L' adesione dell' Italia alla Belt of Road Initiative (BRI) va «come minimo approfondita», sostiene il sottosegretario leghista agli Esteri Guglielmo Picchi. Importante è ora convincere un altro sottosegretario in quota Lega e, soprattutto, Luigi Di Maio che con Michele Geraci è stato già un paio di volte in Cina per stringere il memorandum di intesa che dovrebbe essere firmato da Giuseppe Conte a fine mese, quando il leader cinese Xi Jinping sarà in Italia dal 21 al 24 marzo con una settantina di industriali al seguito.
La Lega vorrebbe conoscere il testo dell' intesa. Su La Via della Seta sono troppi i dubbi e le pressioni degli alleati a stelle e strisce per non approfondire. Un paio di giorni fa, parlando a Milano al festival di Limes, Conte ha confermato che il governo «sta lavorando per sottoscrivere un Memorandum of Understanding» precisando che «ovviamente è un accordo quadro e non significa che il giorno dopo siamo vincolati ad alcunchè», ma le indiscrezioni sul testo dell' intesa hanno fatto drizzare i capelli a Washington come alla sede Nato di Bruxelles.
Gli Stati Uniti non mollano e da giorni avvertono l'Italia del rischio di colonizzazione cinese e dei rischi che corre la stessa Alleanza Atlantica. L'eventuale accordo infrastrutturale, che potrebbe spalancare all' Italia le porte di molti paesi africani dove la Cina opera da tempo, si unisce alla cessione della gestione della frequenza 5G a Huawei già fatta dall'attuale governo e sulla quale sempre la Lega vorrebbe tornare indietro.
Progetti infrastrutturali, terrestri e marittimi, che coinvolgono anche numerosi porti italiani e che per gli Usa sono strumenti di una colonizzazione che la Cina avvia in Europa sfruttando la debolezza politica ed economica di uno dei Paesi del G7 che in questo modo si sfila anche dall'intesa quadro che Bruxelles vorrebbe stringere con Pechino anche sul 5G.
La richiesta fatta ieri da Salvini di «tutelare l'interesse nazionale soprattutto quando si parla di telecomunicazioni e dati sensibili», è forse il frutto della pesante richiesta all'Italia di riflessione fatta dalla Casa Bianca e da Bruxelles. Nonché dal recente viaggio a Washington del sottosegretario di Stato Giancarlo Giorgetti che in quella occasione ebbe a dire che il problema dell'Occidente «non è la Russia ma la Cina».
Ponti, strade, ferrovie, navi, ma anche vie della Seta digitali. Sotto questo punto di vista la posizione dell' Italia nel Mediterraneo, strategica per il controllo dei grandi cavi sottomarini e dei relativi dati, mette a rischio anche miliardi di informazioni. Metterli «in mano ad altri è cosa molto delicata e quindi bisogna pensarci cinque volte», insisteva ieri a Milano il leader della Lega.
Ma se per gli Usa si tratta di accordi che minacciano la sicurezza nazionale, Di Maio prova a cogliere gli aspetti di business escludendo dall' intesa intenti politici. Ingenuità o scarsa conoscenza di come Pechino, attraverso i suoi colossi industriali (controllati sempre in qualche modo dallo stato cinese), aumenta la sua influenza geopolitica. Senza contare che in attesa dei miliardi di yuan si rischiano di perdere gli investitori americani.
Sul testo messo a punto dai cinesi e inviato al Mise - e che prevede sei corridoi, uno terrestre e cinque marittimi che dovrebbero connettere l'Eurasia a Pechino collegando i mercati cinesi all' est Europa tramite il porto di Trieste e all'ovest tramite il porto di Genova - si dovrà quindi lavorare ancora di fino.
Qualcosa in più capiranno domani i parlamentari del Copasir quando incontreranno Conte proprio per capire i contorni dell' intesa con Huawei e sapere cosa effettivamente contiene il memorandum che dalla task force Cina del Mise è ora sotto la lente del ministero degli Esteri. Of course.
IL GRANDE GIOCO SULLA VIA DELLA SETA
Guido Santevecchi per “l’Economia - Corriere della Sera”
Si parla molto di analisi costi-benefici di questi tempi in Italia. Non bastava la Tav, ora da Washington è stato aperto con grande polemica il fronte «Belt and Road», la Via della Seta tracciata da Xi Jinping per costruire un corridoio terrestre lungo l'Asia Centrale e uno marittimo attraverso l'Oceano Indiano e l'Africa: una serie di infrastrutture tra Cina ed Europa. Xi aveva lanciato l' idea nel 2013 con un discorso nella mitica Samarcanda, in Uzbekistan.
Quando aveva parlato di «Yi Dai Yi Lu», che significa «Una cintura una strada», «One Belt One Road», pochi avevano prestato attenzione: il presidente cinese era ancora un oggetto sconosciuto, non si capiva se fosse un riformista o un conservatore, non era ancora leader a vita con il suo Pensiero iscritto nella Costituzione del Partito-Stato della seconda economia mondiale.
Poi Xi si è fatto capire meglio, vuole guidare la ri-globalizzazione (cinese) all' era dell' America First di Donald Trump, ha proposto a chi «non ha paura di navigare nell' oceano della globalizzazione» di «salire sul treno dello sviluppo». Frasi retoriche accompagnate però da cifre enormi: le nuove Vie della Seta saranno lastricate con 900 miliardi di dollari almeno in investimenti per costruire linee ferroviarie, porti, strade, telecomunicazioni, griglie energetiche tra Est e Ovest. Punto di partenza, centro di tutto, la Cina.
Veniamo ai costi-benefici per l' Italia che vuole firmare un Memorandum d' intesa sulla Via della Seta.
Con scarsa delicatezza il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca ha detto che l'adesione alla «Belt and Road» potrebbe «danneggiare la reputazione globale dell'Italia nel lungo periodo». Costo politico serio, visto che gli Stati Uniti sono per noi un punto di riferimento per economia e sicurezza numericamente e storicamente molto più pesante rispetto alla Cina.
Da Pechino il ministro degli Esteri Wang Yi ha detto di avere fiducia che l'Italia «terrà fede alla decisione presa in modo indipendente». Un ripensamento danneggerebbe il rapporto con la Cina. La stampa statale cinese ci ha fatto i conti in tasca: ha osservato che in un quadro di rallentamento, debito, disoccupazione, sottoscrivere il progetto potrà agevolare la penetrazione di prodotti italiani in Cina e creare opportunità di collaborazione nella costruzione di infrastrutture in Paesi terzi.
Pechino ha investito già 13,7 miliardi di euro in Italia, siamo terzi in Europa dietro Gran Bretagna e Germania. Cento milioni di investimenti creano circa mille posti di lavoro, conclude il ragionamento cinese. È poco rassicurante che i costi siano sottolineati da Washington e i benefici prospettati da Pechino: rischiamo di finire nel mezzo del fuoco del nuovo scontro strategico Usa-Cina, che non si esaurirà con una tregua nella guerra dei dazi.
Analisi tecniche sono state tracciate anche a Roma. L'Ufficio studi di Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti ha pubblicato già nel 2017 un dossier sulla Belt and Road, dal titolo evocativo: «Ultimo treno per Pechino». Prende atto che la Belt and Road è un'iniziativa strategica con l'obiettivo di creare un'area di cooperazione politica ed economica in cui l'attore principale sia la Cina.
Tra gli scopi c'è quello di sostituire gli Usa come nuovo attore globale ed esportare l'eccesso di capacità produttiva cinese. Però, restare fuori apre il rischio di marginalizzazione perché la cintura e la strada di Xi abbracciano il 38 per cento del territorio mondiale, il 62 per cento della popolazione, il 30 per cento del Pil e il 24 per cento dei consumi interni.
Sace sottolinea che «la naturale propensione italiana verso il settore logistico-portuale, composto da un cluster di 160.000 aziende dal valore stimato di circa 220 miliardi di euro» può pesare molto nel progetto cinese. Vengono citati i porti di Ravenna, Trieste soprattutto e come «brand» Venezia. Il nome della città di Marco Polo affascina ancora i cinesi: e l'Italia nella «Yi Dai Yi Lu» darebbe al progetto il marchio di nobilità del primo Paese del G7 a bordo.
Il Memorandum d'Intesa sembra una formula politico-diplomatica sufficientemente vaga da non legarci in modo ignominioso al carro dell'imperatore cinese. Se è indeterminato, a che cosa serve il Memorandum? In cambio dell' adesione prestigiosa si potrebbero ottenere con maggiore rapidità vantaggi sui dossier commerciali (ci sono voluti anni solo per sbloccare l' export per via aerea delle nostre arance).
Ma se tutto finirà bene, con una bella cerimonia di sottoscrizione, se dopo il memorandum arriveranno i progetti per infrastrutture, siamo sicuri di poterci impegnare? Ricevere investimenti da Pechino per la piattaforma logistica del porto di Trieste, diventare approdo per i container cinesi diretti in Europa occidentale e orientale, lavorare per costruire ponti e ferrovie in Africa darebbe sicuramente impulso a un Paese in recessione.
Sempre che alla fine la sindrome da No Tav non prenda in ostaggio ogni iniziativa.
Fonte: qui
ECCO COSA PREVEDE IL MEMORANDUM CHE SARÀ FIRMATO DA XI JINPING E GIUSEPPE CONTE
I SETTORI DI COLLABORAZIONE SONO SEI E RIGUARDANO PORTI, STRADE, BANCHE E SITI UNESCO
GLI APPALTI SARANNO PURE “LIBERI”, COME SI LEGGE NELLA BOZZA DEL TESTO, MA LE AZIENDE CINESI SONO TUTTE STATALI, E C’È IL RISCHIO CHE LA PENETRAZIONE ECONOMICA SI TRASFORMI IN INFLUENZA GEOPOLITICA, COME IN GRECIA E IN AFRICA...
Marco Galluzzo per il "Corriere della Sera”
Il rischio che tutti paventano, da Washington a Bruxelles, è che la Cina faccia quello che vuole, anche a livello geopolitico, nei mercati in cui riesce a penetrare. Sta accadendo in Grecia, potrebbe accadere domani in Italia.
Forse anche per questo nel testo del Memorandum fra Roma e Pechino, che dovrebbe essere firmato a villa Madama a fine mese in occasione della visita di Xi Jinping, ci sono almeno quattro caveat voluti esplicitamente dal nostro governo. Tutti e quattro aprono l' accordo e ne costituiscono la cornice: i principi della Carta delle Nazioni Unite, gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici sottoscritti anche dai cinesi, i principi europei sulla collaborazione con il gigante asiatico e quelli, sempre della Ue, della Strategia di Bruxelles per collegare il Vecchio continente alla Cina.
Non è molto, ma non è nemmeno poco. Il memorandum si muove entro questi binari, ed è come sottoscrivere che anche la Cina dovrà rispettare norme internazionali, regole europee, accordi già firmati.
Cautele, si dirà, ma che rispondono alle perplessità che oggi arrivano dalla Casa Bianca come dalla Commissione dell' Unione europea. Inoltre, ed è un altro caveat, il governo italiano mette nero su bianco che saranno appoggiate «le sinergie fra la Via della Seta e le priorità identificate nel Piano di investimento per l' Europa e le reti trans-europee». Insomma i cinesi potranno investire, anche nelle infrastrutture, ma tenendo ben presenti quelle che sono le linee guida in materia, e i progetti esistenti, della Ue.
Sono invece sei i settori della collaborazione: linee guida normative, supportati dalla Aiib, la Banca per gli investimenti asiatica; trasporti e infrastrutture, che potranno sfociare in progetti comuni come «strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia - tra cui fonti rinnovabili e gas naturale - e telecomunicazioni»; investimenti bilaterali, oltre che comuni in Paesi terzi, e tutto questo avverrà, sia in Italia che all' estero con procedure di appalto «aperte, libere, trasparenti, non discriminatorie, con il rispetto esplicito dei diritti di proprietà intellettuale»; collaborazione finanziaria, cercando sinergie fra le istituzioni dei due Paesi o finanziando congiuntamente progetti in Italia e all' estero; collaborazione culturale, universitaria e in ambito Unesco, arrivando anche a ipotizzare un gemellaggio fra i siti Unesco dei rispettivi Paesi; e infine la cooperazione allo sviluppo ecosostenibile, immaginando politiche congiunte o comuni nel settore della protezione ambientale e dei cambiamenti climatici.
Il «Memorandum of understanding» (Mou) avrà diverse fasi e livelli di attuazione, un processo lungo, che potrà iniziare con programmi pilota nelle aree chiave dell' accordo.
Una concessione ai cinesi sembra invece l' enfasi che viene posta nella promozione della «cooperazione fra capitale privato e pubblico, incoraggiando gli investimenti e il supporto finanziario attraverso approcci diversificati».
Essendo quella cinese, per grande parte, un' economia di Stato, con grandi aziende e campioni nazionali che si muovono con aiuti di Stato e sussidi pubblici, il passaggio non è di poco conto. Un preciso punto è poi dedicato alla sostenibilità dei progetti congiunti nei Paesi terzi, che dovranno non solo tenere conto delle «esigenze delle popolazioni», ma anche «assicurarsi della validità e sostenibilità sotto il profilo fiscale, sociale, economico e ambientale». Un modello che ovviamente viene replicato per gli investimenti e i progetti che verranno fatti in Italia.
Alla Commissione governativa Italia-Cina toccherà il compito di monitorare lo svolgimento e i futuri sviluppi dell' accordo, e «le controparti si impegnano a risolvere amichevolmente tutte le controversie derivanti dall' interpretazione del documento attraverso incontri diretti». Questo perché il Memorandum non è un Trattato internazionale, un accordo cogente, ma solo uno schema legale fra due Stati che rimanda a futuri accordi, quello che nel diritto anglosassone è definito un semplice legal framework , che va poi riempito di contenuti. Una precisazione espressamente contenuta nel documento.
Il Mou avrà una validità di cinque anni, in cui gli Stati dovranno cooperare nelle aree di mutuo interesse, sviluppare progetti, portarli avanti. Poi si rinnoverà automaticamente per altri cinque anni. Per allora, se tutto andrà come da programmi, nei porti di Genova, Palermo e forse Trieste, si parlerà anche cinese.
Fonte: qui
L'ALLARME PER L'ARRIVO DI PECHINO NEI PORTI E NELLE AZIENDE ITALIANE ARRIVA TARDI. SONO 20 ANNI CHE IL CENTROSINISTRA HA APERTO LA STRADA AI CAPITALI ORIENTALI, CON ROMANO PRODI CHE HA FATTO PURE DA CONSULENTE PER L'AGENZIA DI RATING CINESE
IL PRODIANO PAOLO COSTA È ADVISOR PER GLI AFFARI NEI PORTI. E POI CDP RETI, ETC.
IN GERMANIA I CINESI HANNO INVESTITO 22 MILIARDI. TUTTI IN AZIENDE NON STRATEGICHE?
Francesco Bonazzi per “la Verità”
Il governo di Giuseppe Conte aspetta di prendere la Via della seta e firmare accordi miliardari con il presidente Xi Jinping tra dieci giorni, ma Pechino ha preso la Via della pizza già da 20 anni, e con la benedizione di Romano Prodi e Massimo D' Alema, per una volta d' accordo su qualcosa. Come dimostra il ricco business dei porti italiani, a cominciare da quello di Genova, dove un altro prodiano, l' ex ministro Paolo Costa, ha avuto un ruolo chiave nel portare i cinesi nelle banchine sotto la Lanterna.
Ma più in generale, gli investimenti di Pechino in Italia valgono 18 miliardi di euro, dei quali ben 7 sono stati investiti per ottenere il controllo della Pirelli, senza che nessuno dei politici che oggi rilanciano l' allarme di Washington sulla penetrazione cinese abbia proferito verbo.
L' Eliseo
Il leghista genovese Edoardo Rixi, sottosegretario alle Infrastrutture, ieri è stato molto abile parlando con il Corriere della Sera: alla fine dell' intervista ha detto che noi possiamo fare quello che vogliamo con il presidente cinese, a Roma tra il 21 e il 22 di questo mese, ma quello che non faremo noi con Pechino lo faranno di sicuro i francesi, visto che «due giorni dopo Xi Jinping andrà in visita ufficiale all' Eliseo» dal nostro grande amico Emmanuel Macron. E del resto, da bravo genovese, Rixi sa perfettamente che i capitali di Pechino hanno fatto comodo e faranno ancora comodo, visto che già oggi il porto di Genova è un hub importante delle merci di Pechino.
Non a caso, nelle pieghe dell' accordo contestato da Donald Trump, sull' onda del caso Huawei, c' è il grande interesse della Cina per completare l' acquisizione dello scalo ligure e aggiungervi il porto di Trieste.
L' accordo con la cinese Cccc per il porto di Genova è stato firmato dal presidente Paolo Emilio Signorini, allievo di Paolo Costa, che è stato anche nominato advisor per i rapporti con Pechino dallo stesso Signorini, nonostante la legge Madia vieti di dare incarichi retribuiti ai pensionati della pubblica amministrazione.
Costa voleva sbarcare a Genova già 11 anni fa, ma perse una guerra tutta interna all' Ulivo a favore della filiera Claudio Burlando-Luigi Merlo. Costa divenne però numero uno del porto di Venezia, città di cui è stato anche sindaco, dopo esser stato per due volte ministro dei Lavori pubblici con Romano Prodi. Costa è anche presidente della Spea, la società di Autostrade che avrebbe dovuto controllare il ponte Morandi: le responsabilità verranno appurate dall' inchiesta penale in corso.
Ma la Via della seta prossima ventura non passa solo per i porti, come sei secoli fa. E anche in questi ultimi 20 anni ha sempre avuto i suoi profeti, specialmente a sinistra. Se l' attuale ministro dell' Economia, Giovanni Tria, non fa mistero della propria infatuazione giovanile per la Cina di Mao Zedong, molto più concretamente Prodi e D' Alema hanno sempre lavorato per rapporti d' affari più fluidi sull' asse Roma-Pechino. Il professore bolognese è stato tra i primi ad avere l' onore di essere invitato a tenere lezioni alla scuola del Partito comunista cinese e anche a D' Alema, a partire dalla fine degli anni Novanta, sono sempre stati fatti ponti d' oro.
Lo stesso vale per Giancarlo Elia Valori, boiardo di Stato passato poi alla corte dei Benetton. E anche il D' Alema vignaiolo, adesso, vende il suo pinot nero in Cina.
Il fatto è che in questo ventennio di apertura italiana causa mancanza di capitali, sia privati sia pubblici, la Cina ha messo a segno un colpaccio dietro l' altro, arrivando a quasi 650 imprese italiane partecipate e un giro d' affari che l' anno scorso ha toccato i 18 miliardi di euro. Il tutto senza contare i titoli di Stato italiani nel portafoglio di Pechino.
Tra i gioielli della corona cinese spiccano gli elettrodomestici della Candy, l' alta moda di Krizia e un gruppo di alto livello tecnologico nel biomedicale come Esaote. Del resto, lo storico presidente dell' associazione Italia Cina è stato da sempre un grande manager come Cesare Romiti, che quando era alla Fiat aveva cominciato a comprare acciaio e componenti da Pechino. E tutti questi ricchi business sono sempre stati portati a compimento senza farsi troppe domande sui diritti civili, sulle esecuzioni di massa o sulle persecuzioni contro i preti cattolici.
Oggi nessuno di coloro che lanciano l' allarme sulla Cina ricorda che nel 2017 China national chemical si è portata a casa la Pirelli investendo circa 7,3 miliardi, ma avendo l' astuzia di lasciarne la guida a Marco Tronchetti Provera. Al manager della Bicocca nessun esponente politico ha osato, all' epoca, obiettare alcunché.
E men che meno i giornaloni che oggi mettono in guardia Conte.
La Germania
E poi non si può dimenticare che in Ansaldo energia ci sono 400 milioni di euro freschi pompati da Shangai electric, mentre China state grid ha comprato il 35% di Cdp reti sborsando 2,8 miliardi ed entrando così, indirettamente, nella filiera di comando di Snam, Italgas e Terna.
L' operazione su Cdp reti, come settore presidiato, l' ha fatta il centrosinistra e obiettivamente non è la stessa cosa che vendere una casa di moda. Se invece si vuole inquadrare meglio il contesto europeo degli investimenti cinesi, prima di affermare che l' Italia rischia di diventare il ventre molle dell' Eurozona bisogna ricordare che tra il 2008 e il 2018 noi abbiamo ricevuto investimenti cinesi per 15,3 miliardi, ma siamo stati sopravanzati dalla Germania con 22 miliardi e dal Regno Unito con 47 miliardi.
Gli investimenti degli altri saranno tutti rigorosamente in settori non strategici, oppure siamo gli unici polli?
Fonte: qui
L’ITALIA FA ACCORDI CON LA CINA E GLI USA S’INCAZZANO: STOP A INFORMAZIONI RISERVATE E MATERIALE SENSIBILE NEI PORTI ITALIANI
LA CASA BIANCA STA PRENDENDO MOLTO SUL SERIO L’ADESIONE DELL’ITALIA ALLA VIA DELLA SETA E MINACCIA RITORSIONI PESANTI.
SE POI HUAWEI PARTECIPERÀ ALLE ASTE 5G BYE BYE COOPERAZIONE CON I SERVIZI SEGRETI
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera”
Stop alla condivisione di informazioni riservate con i servizi segreti italiani e stop alla consegna di materiale «sensibile», per esempio attrezzature militari, nei porti di Genova e di Trieste. Ecco quale sarà, in concreto, la prima reazione degli Stati Uniti, se l' Italia aderirà alla nuova Via della Seta promossa dalla Cina.
Lo ha spiegato al Corriere Garrett Marquis, stretto collaboratore e portavoce di John Bolton, il Consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump. Alla conversazione hanno partecipato anche due consiglieri con responsabilità dirette sul dossier. Era stato proprio Marquis il 5 marzo scorso, con una breve dichiarazione al Financial Times , a portare alla luce l' irritazione degli Stati Uniti, che covava da almeno un mese a Washington, e a scatenare l' aspra polemica tra Lega e Movimento 5 Stelle.
Il caso, ormai, è salito anche tra le priorità dell' amministrazione americana. Ieri un portavoce del Segretario di Stato, Mike Pompeo ha dichiarato all' agenzia Agi : «Ci preoccupano l' opacità e la sostenibilità della "Belt and Road Initiative" (il nome internazionale della Via della Seta, ndr ). Gli Stati Uniti esortano l' Italia a vagliare con attenzione gli accordi sugli scambi, sugli investimenti e sugli aiuti commerciali, per essere certi che siano economicamente sostenibili, in linea con i principi di apertura e della correttezza del libero mercato, nel rispetto della sovranità e delle leggi».
Dalla Casa Bianca, però, arrivano parole più affilate. Già la settimana scorsa, parlando per conto di Bolton, Marquis aveva accennato ai «rischi per la reputazione dell' Italia».
Ora entra nel vivo della questione: «Se l' Italia vuole aumentare le sue esportazioni o attirare più investimenti, dovrebbe essere in grado di farlo attraverso i normali canali commerciali.
Siamo scettici sul fatto che l' appoggio del governo italiano al progetto "Belt and road Initiative" possa portare benefici economici sostenibili nel tempo alla popolazione italiana e non finisca, invece, per danneggiare la reputazione globale nel lungo periodo». Non basta: la nuova Via della seta «è un rischio, un azzardo politico. In alcuni casi ben documentati, la Cina è stata in grado di ottenere come garanzie collaterali asset strategici da Paesi non capaci di ripagare i loro debiti».
Ma il messaggio, naturalmente già recapitato a Roma, contiene anche un avvertimento pesante, sia pure attenuato dal linguaggio qui più sfumato di Marquis: «L' Italia è un pilastro della Nato. Se il vostro Paese firma il memorandum, non ci saranno conseguenze sull' Alleanza Atlantica. Tuttavia siamo seriamente preoccupati per le conseguenze dell' operatività dell' Alleanza, specialmente con riguardo alle comunicazioni e alle infrastrutture fondamentali per sostenere le nostre iniziative miliari comuni».
Risulta che la Casa Bianca abbia già avvisato l' Italia che diventerebbe impossibile condividere informazioni riservate, per esempio i report dell' intelligence, se il governo giallo verde dovesse comprare equipaggiamenti di telecomunicazioni dall' azienda cinese Huawei. Inoltre gli Stati Uniti non potranno più inviare materiale sensibile nei porti italiani, a Genova e a Trieste, se i cinesi vi costruiranno opere infrastrutturali.
Il consigliere di Bolton chiarisce il contesto: «Noi stiamo mettendo in guardia numerosi Paesi dai rischi insiti nella "Belt and Road Initiative". Ma l' Italia per noi rappresenta un caso particolare, perché è un grande Paese, un nostro stretto alleato e fa parte del G7. Forse la Cina è in pressing sull' Italia perché pensa che sia un Paese economicamente vulnerabile e politicamente manipolabile».
In realtà tra i grandi Paesi c' è anche la Germania. Il Wall Street Journal rivela che l' ambasciatore americano a Berlino, Richard Grenell, ha scritto una lettera-avviso al governo tedesco: se consentirete a Huawei o ad altre società cinesi di partecipare al progetto di connessione 5G, l' Internet super veloce in grado di far «dialogare» anche gli oggetti, gli Stati Uniti «non potranno più mantenere lo stesso livello di cooperazione con i servizi segreti tedeschi».
Ultima notazione dal team di John Bolton: i grandi Paesi come l' Italia e anche la Germania rischiano di trovarsi in compagnia di economie e di Stati come Pakistan o Kenya. Senza contare che alcuni potenziali partner, come Sri Lanka o Malaysia si sono già tirati indietro..
Fonte: qui
XI JINPING AVVERTE: SE ANNACQUATE IL PROTOCOLLO D'INTESA, SALTA LA VISITA IN POMPA MAGNA IN ITALIA, IN CUI PECHINO MOSTRERÀ AGLI USA DI AVER 'SCIPPATO' UN MEMBRO G7-NATO
DI MAIO NEL SUO VIAGGIO A PECHINO HA IMPEGNATO IL GOVERNO ALL'INSAPUTA DI SALVINI, FARNESINA E MATTARELLA. CHE OGGI HA DATO UN ''OK'' CON MOLTI PALETTI: TOCCATE INDIPENDENZA E INTEGRITÀ NAZIONALE E INTERVENGO IO
L'ITALIA, COME IL BOEING 737 MAX, È FINITA NELLA GUERRA TRA USA E CINA E NON SA PIÙ COME USCIRNE
LO SCAMBIO DI COPPIE TRA LEGA E M5S: GERACI PER ZANNI
DAGONEWS
Sgonfiata la bolla dell'insopportabile Tav con ammuina a 5 stelle, il governo si è ficcato nel ginepraio della Via della Seta, e la magra consolazione per il disgraziato popolo italiano è che stavolta si tratta di decisioni da cui davvero dipende il futuro del Paese.
Dall'elezione di Trump, e in particolare dall'inizio della sua guerra commerciale contro la Cina, il resto del mondo ogni giorno ha dovuto ballare sul filo di difficilissime scelte, a volte culturali, a volte economiche, sempre e comunque politiche.
L'ultima? Il pasticcio dei Boeing 737 Max, modello sfornato in gran fretta dal campione nazionale americano (primo esportatore degli Stati Uniti e da solo in grado di trainare o affondare Wall Street). Quale paese ha deciso per primo di tenerli a terra? Proprio lei, la Cina. E dietro di lei, piano piano, sono arrivati tutti gli altri, Unione Europea compresa, dopo un iniziale tentennamento. Tutti tranne gli USA, con la Boeing e la FAA (autorità federale per l'aviazione) che granitiche ribadiscono la fiducia nel modello. Così fiduciosi che hanno aggiornato di corsa il software.
Era dall'incidente della Lion Air dello scorso ottobre che si parlava di una ''manina'' tecnologica dietro lo schianto. Ci sono molti report di piloti di diverse compagnie aeree (alcuni oggi li pubblica il ''Corriere'') zeppi di lamentele sul software e sui problemi a ''tenere'' gli aerei quando il cervellone prendeva di prepotenza i comandi.
Ma se qualche anno fa finirono negli hangar tutti i Boeing 787 in attesa che il problema con le batterie al litio fosse risolto, stavolta si è scelto di continuare a volare, sulla pelle dei 150 morti al decollo del volo Ethiopian Airlines. Anche questa è una scelta politica, non poco condizionata da affari e pressioni: dopo il disastro Lion Air, il titolo Boeing aveva perso il 12%, ma nei mesi successivi grazie a un'opera di rimozione (mediatica) del problema, recuperò tutto con gli interessi.
E di decisioni politiche se ne prendono ogni giorno anche in Italia. Sul piano geopolitico quella più bizzarra e significativa delle ultime 24 ore è la nomina di Marco Zanni come responsabile Esteri della Lega. Salvini, dopo molti scivoloni sul piano internazionale, ha capito che non può più improvvisare, e ha scelto un ex M5S per guidare un'area così importante. Ma come? Non c'era nessuno nel suo partito? Beh, uno che si intende di Cina, per esempio, ci sarebbe, e si chiama Michele Geraci. Solo che il sottosegretario agli Esteri in quota Carroccio è ormai stato ''incamerato'' da Di Maio, in un curioso scambio di coppie.
Non ha più bisogno di presentazioni il ''sinofilo'' Geraci, che accompagnò Luigino nel famigerato viaggio a Pechino (quello col volo in economica e poi però l'albergo a 5 stelle), in cui all'insaputa di Salvini, ma anche della Farnesina (Belloni e Moavero Milanesi) e del Quirinale, si impegnò col governo cinese alla firma del Memorandum of Understanding che Xi Jinping (o ''presidente Ping'', come lo chiamò il vicepremier) verrà a siglare in Italia tra il 21 e il 23 marzo, con tappa a Palermo organizzata proprio dal palermitano Geraci.
Si tratta di una prova di forza di cui si parlerà per mesi: il leader cinese che mostra agli Stati Uniti di essere in grado di ''scippare'' un alleato di primo piano, l'Italia, membro della Nato e primo Paese G7 a entrare nella ''Belt and Road Initiative''.
Salvini che non sa bene che pesci prendere, ha deciso che non parteciperà al pranzo in onore di Xi, su consiglio di Stefano Beltrame, il suo consigliere diplomatico che negli anni scorsi fu console a Shanghai, dove ebbe parecchio a che fare con Geraci e al quale aveva più volte manifestato perplessità sul progetto Via della Seta. Ma il sottosegretario ha dalla sua il sostegno di Di Maio ed è andato avanti a trattare con il governo cinese.
Come uscire da questo ennesimo pantano? La parola d'ordine, come con la Tav è: annacquare. Diluire. Rimandare. Ma la Cina ha minacciato: se il protocollo viene ''alleggerito'', salta tutto: la visita in pompa magna di Xi, la firma, e pure i buoni rapporti tra i governi. In queste ore si discute del controllo del porto di Trieste: i cinesi hanno già trattato con l'amministratore delegato di acquisirne la maggioranza. Anche quel deal sarebbe a rischio in caso di passo indietro del governo Conte.
Per ora sia il premier che il ministro Tria (altro amico di Pechino) hanno difeso il protocollo d'intesa, ma Mattarella e il suo staff stanno vagliando il documento, e giusto pochi minuti fa hanno fatto sapere che ''…gli accordi che il nostro Paese andrà a sottoscrivere conterranno regole più severe e stringenti rispetto a quelle indicate negli atti elaborati nei giorni scorsi dall'Unione Europea''. In pratica dà l'ok ricordando che anche dopo la firma si potranno mettere tutti i paletti che riterrà opportuni.
Dal Colle sono come al solito contrariati: per mettere in piedi un meccanismo simile serviva l'esame del Consiglio dei Ministri, non bastava la visita un po' carbonara di un vicepremier che ha impegnato l'intero governo anche per portare a casa un risultato e dimostrare che quel viaggio aveva un senso.
In ogni caso, Mattarella potrà sollevare obiezioni su tutti i punti che vadano a toccare la sicurezza, l'indipendenza e l'integrità nazionale, visto che la Costituzione riserva al Presidente della Repubblica la difesa delle ultime due.
Fonte: qui
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