giovedì 8 settembre 2016

Imposta patrimoniale in arrivo ? Ecco i dettagli

Come in ogni crisi che si rispetti (o che stia per arrivare), ecco giungere proposte finalizzate a tassare la ricchezza degli italiani attraverso l’introduzione (o l’inasprimento) di imposte patrimoniali.

Con la crescita economica che arranca, il bilancio statale in cronica difficoltà è necessario ottenere gettiti fiscali aggiuntivi. Quindi, cosa di meglio di una bella imposta patrimoniale? dicono. 

Dei cinque rischi capitali dei quali da anni si parla in questo blog, trovo che l’imposta patrimoniale sia quello che presenta maggiori maggiori difficoltà applicative, sia a causa degli aspetti tecnici, sia a causa della sostenibilità politica di un’imposta del genere, che tuttavia piace e viene evocata da molte parti politiche.

Di seguito vi propongo un mio ultimo lavoro che riprende e aggiorna i precedenti contributi. Si tratta di un articolo pubblicato su Investors’ mese di maggio.

Buona lettura.

Quando si parla di imposta patrimoniale, la mente tende a correre al lontano 1992, quando l’allora Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, durante la notte, operò un prelievo una tantum del 6 per mille sulle giacenze dei conti correnti.


Benché in forme differenti rispetto al 1992, imposte patrimoniali sono  già presenti nel nostro ordinamento tributario e si chiamano principalmente IMU e Imposta sostitutiva sulle attività finanziarie; ma ne esistono anche altre minori. Al netto delle modalità censurabili con cui venne effettuato il prelievo dai conti,   a differenza della patrimoniale di Amato del 1992, quelle attuali sono addirittura più invasive poiché, essendo strutturali, colpiscono periodicamente le attività possedute in forma di patrimonio immobiliare e attività finanziarie (conti correnti, fondi comuni, dossier titoli ecc). Scopo di questo articolo è quello di cercare di capire in che modo si potrebbe essere colpiti da un’imposta patrimoniale e quali sono le attività più esposte a questo rischio.


Quindi, cerchiamo di capire quali difficoltà potrebbero riscontrarsi nell’applicazione di una simile imposta.  

Preliminarmente, va osservato  che il governo potrebbe contare su un ”extragettito”, semplicemente inasprendo il prelievo fiscale sulle imposte patrimoniali già in essere.  

Ciò  potrebbe esser fatto agevolmente alzando le aliquote del prelievo sia per l’IMU, che per l’imposta sostitutiva sulle attività finanziarie. 


Nel caso dell’IMU, inoltre, per ottenere lo stesso risultato, ad aliquote immutate , sarebbe sufficiente una rivalutazione degli estimi delle proprietà immobiliari, tali da attribuire agli immobili un valore superiore, aumentando così la  base imponibile da colpire e  favorendo quindi un aumento di gettito. 


Questa soluzione, per quanto di facile applicazione, presenterebbe comunque delle controindicazioni delle quali il Governo dovrebbe tenerne conto, almeno si spera.  Innanzitutto, nel pensare ad un eventuale inasprimento del prelievo fiscale relativo alle imposte patrimoniali già presenti, non si potrebbe non tenere in considerazione gli effetti che questo determinerebbe  alla luce del quadro congiunturale decisamente debole,  dopo un lungo periodo di recessione, che ha colpito duramente il reddito delle famiglie italiane (Figura 1).

Figura 1: Il Grafico mostra l’andamento dei redditi reali nei vari paesi considerati, ponendo come base 100 i redditi nell’anno 1995. 

Come si osserva i redditi degli italiani sono precipitati ai livelli del 1995 e nessuno dei paesi considerati vanta un prima così negativo. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Eurostat.

Si consideri che, un eventuale aumento dell’imposizione, per quanto limitato che sia, andrebbe a colpire il reddito disponibile delle famiglie, e pertanto  produrrebbe  una ulteriore contrazione dei consumi e quindi aggraverebbe anche il ciclo economico, già per nulla brillante.  

Questo, inoltre, potrebbe comportare una diminuzione più o meno marcata della capacità di rimborso dei mutui al sistema bancario, impattando sugli  istituti di credito che, a quel punto, si troverebbero nella condizione di  dover esporre ulteriori sofferenze potenzialmente idonee ad abbatterne il patrimonio,  aggravando così una situazione già complessa (confronta Investors’ n. 1).  

In tal senso, ad esempio, un aumento della struttura impositiva dell’IMU (realizzata attraverso un aumento delle aliquote o anche attraverso una rivalutazione della base imponibile), rischierebbe di essere troppo severo  o addirittura insostenibile per coloro che non dispongono di una capacità di reddito adeguata per poter sopportare un esborso aggiuntivo rispetto a quanto pagato in ragione alle regole attuali.

Tutt’altro ragionamento potrebbe esser osservato in caso di aumento delle aliquote patrimoniali sulla ricchezza finanziaria, ossia quella ricchezza investita in titoli, obbligazioni, azioni, fondi comuni ecc. In questo caso, benché sia già prevista una imposta sostitutiva dello 0,20%, ciò che rende possibile un ulteriore inasprimento dell’imposizione fiscale, risiede proprio nella natura dell’investimento stesso. E  cioè, il fatto che questo sia “immobilizzato” e quindi potenzialmente escluso dal soddisfacimento diretto dei bisogni, e quindi dal sostenimento del ciclo economico attraverso la spesa di parte delle risorse investite.


Figura 2:  La tabella riporta i dati relativi alle attività reali delle famiglie italiane nell’anno 2013. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca d’Italia.

Veniamo ora alla ricchezza finanziaria, quantificata in 3897 miliardi di euro, tentando di comprendere in che modo potrebbe essere interessata da un’eventuale imposizione patrimoniale.


Figura 3:  La tabella riporta i dati relativi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane nell’anno 2014. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca d’Italia


Per il ragionamento sopra esposto, quindi, escludendo le componenti sopra descritte,  la ricchezza che rimarrebbe rilevante ai fini di un imposizione patrimoniale, per lo più in forma liquida, sarebbe poco più di 2000 miliardi come è possibile desumere dalla figura n. 4.

Figura 4: La tabella riporta i dati relativi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane nell’anno 2014, a parere dell’autore “facilmente” tassabile con imposte patrimoniali straordinarie. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca d’Italia.

A rigor di logica, da questo stock di  ricchezza finanziaria così determinata, dovrebbero essere scomputate le passività che ammontano a circa 912 miliardi di euro, restituendo un imponibile tassabile di circa 1100 miliardi  di euro. Riducendo la base imponibile da colpire, il pericolo è proprio quello che l’azione dello Stato, a parità di gettito atteso, possa concentrarsi su patrimoni molto più piccoli e quindi colpire in maniera indiscriminata anche una platea diffusa di piccoli risparmiatori. Infatti, tenuto conto che i depositi bancari e postali si avvicinano, già di loro, alla soglia dei 1000 miliardi, ciò significa che questi sono distribuiti su tutto l’universo dei risparmiatori italiani, piccoli compresi. Giova ricordare che  in Italia  vige  un sistema di garanzia dei depositi di conto  corrente fino a 100 mila euro, che dovrebbe quantomeno escludere  prelievi straordinari fino a tali somme, riducendo ulteriormente la base imponibile da colpire. Ma su questo, personalmente, nutro qualche dubbio e comunque, dipende dagli obbiettivi di gettito prefissati dallo stato, e soprattutto  dallo stato di bisogno.

In altre parole, proprio perché sono risorse investiste in attività finanziarie, in un certo qual modo, sfuggono dalla disponibilità del titolare e quindi anche dalla possibilità di spesa, seppur con le dovute eccezioni del caso. Il risparmiatore, nel sostenimento delle proprie spese, difficilmente intaccherà le risorse investite in strumenti finanziari anche se, in questa crisi,  ciò potrebbe essere parzialmente smentito, poiché sempre più frequente sembra essere il ricorso all’utilizzo di risparmi per integrare o sostituire un reddito che si è contratto o è venuto meno per effetto della crisi. Quindi, in teoria,  il governo potrebbe intervenire per inasprire l’imposizione sulla ricchezza finanziaria, senza con ciò determinare, in maniera proporzionale,  una diretta diminuzione dei consumi.

Ma anche una simile impostazione potrebbe risultare del tutto discriminante per talune categorie di investimenti o di cespiti, che potrebbero essere oggetto di imposizione. Si pensi, ad esempio, a due risparmiatori che dispongono entrambi di un patrimonio di 500.000 euro e che uno di questi abbia investito i propri risparmi in fondi comuni o titoli, mentre il secondo acquistando un immobile. Ebbene, nel primo caso, operare un prelievo a fronte dell’entità del patrimonio, risulterebbe di agevole portata poiché basterebbe aumentare l’aliquota di imposizione e  la società di gestione del fondo comune o l’intermediario finanziario provvederebbe immediatamente ad operare la ritenuta, anche vendendo titoli per crearsi la liquidità necessaria al pagamento dell’imposta. Analogo ragionamento potrebbe essere svolto nel caso di azioni o obbligazioni in custodia su un dossier titoli intrattenuto presso qualsiasi banca. La quale banca, in questo caso, addebiterebbe l’importo dell’imposta sul conto corrente agganciato.

E nel caso non  si dovesse disporre della liquidità necessaria al pagamento dell’imposta, che si fa? In estrema ratio, si potrebbe comunque vendere dei  piccoli quantitativi di titoli ed integrare il saldo del conto corrente, in modo da poter consentire alla banca di operare il prelievo necessario al pagamento dell’imposta. Una soluzione simile a quella appena descritta, potrebbe comunque avere delle controindicazioni soprattutto nel caso in cui dovessero essere introdotte delle patrimoniali straordinarie o una tantum; ma di questo parleremo a breve.

Come dicevamo, il discorso si complica, e non poco, nel caso di immobili. Il risparmiatore che ha investito le sue disponibilità, magari  prosciugandole,  nell’acquisto di un immobile avvenuto in tempi più favorevoli, oggi potrebbe trovarsi nella condizione di non poter provvedere al pagamento dell’imposta patrimoniale, magari aumentata rispetto alle aliquote attuali. In questo caso, il contribuente in esame, non potrà certamente vendere una frazione dell’immobile  per poter provvedere all’obbligazione tributaria. E ciò per evidenti ragioni. E in questo caso, cosa si potrebbe fare?  

A questo interrogativo, al momento, non è stata fornita alcuna risposta a mio avviso praticabile. A meno che non si facciano suonare le trombe della cavalleria e, attraverso l’ente di riscossione (Equitalia), si aggredisca il patrimonio del contribuente. Ma questo, a parer di chi scrive, cozzerebbe con gli elementi cardine di uno stato democratico e di una economia avanzata: ossia la tutela del risparmio e della proprietà privata, peraltro prevista costituzionalmente.

Inoltre, l’immobile acquistato potrebbe essere assistito da ipoteca a fronte del mutuo contratto per l’acquisto; quindi una passività. E’ evidente che, dal punto di vista del contribuente, è del tutto legittimo considerare a scomputo del valore del cespite da colpire con imposta anche le passività finanziaria a fronte dell’acquisto, e quindi l’eventuale mutuo. Aspetto, questo, che avrà comunque una marcata rilevanza in caso di applicazione di imposte  a carattere straordinario, poiché, queste, verosimilmente, oltre ad impattare in modo più significativo, sconterebbero aliquote progressivamente più alte in ragione del patrimonio posseduto. 

Quindi, nel rispetto di  elementari ed intuibili principi di equità,  sarebbe discriminante colpire in maniera identica due patrimoni, nel caso in cui  uno di questi risulti assistito da un mutuo (quindi una passività), ancorché esprimano identici valori patrimoniali.  In buona sostanza, se così fosse, verrebbe confermata l’attuale impostazione dell’IMU che, come noto, colpisce il “valore” degli immobili a prescindere dall’eventuale passività (mutuo) in capo all’immobile stesso, rendendo l’imposta profondamente iniqua.

Senza dimenticare, poi, che un ulteriore inasprimento dell’imposizione tributaria sugli immobili, causerebbe  nefaste conseguenze anche sul valore, deprimendolo ulteriormente. Circostanza, questa, che non esaurirebbe i suoi effetti solo in capo al proprietario dell’immobile, che, a quel punto, si vedrebbe diminuire il valore dell’immobile; ma produrrebbe effetti pericolosi anche nel mondo bancario attraverso la diminuzione dei valori posti a garanzia di eventuali mutui, con conseguenze del tutto immaginabili.

Come abbiamo visto sin qui, un inasprimento della imposizione patrimoniale presenta numerose difficoltà applicative,  soprattutto se si dovesse agire nel rispetto dei principi di equità che dovrebbero essere comunque garantiti ed imprescindibili.

Alle imposte patrimoniali presenti nel nostro ordinamento,  sebbene abbiano carattere strutturale e quindi ripetute negli anni,  tutto sommato, appartiene la caratteristica della sostenibilità in termini di possibilità da parte del contribuente di poter adempiere all’obbligazione tributari; benché in un contesto di deterioramento delle capacità reddituali e di evidenti difficoltà, soprattutto in alcuni strati della popolazione. L’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria, troppo spesso impropriamente evocata da parte dei nostri politici, verosimilmente,  viene pensata  sulla base di un feroce inasprimento delle aliquote impositive, tale da  poter utilizzare il gettito straordinario per abbattere in modo proporzionale il debito pubblico di  qualche centinaio di miliardi. Senza addentrarci nei numeri che, a parer di chi scrive, smentiscono (almeno in via di principio) le aspettative di gettito auspicato dai vari politici che evocano l’introduzione di una patrimoniale straordinaria, vediamo come possono complicarsi le cose nel caso che questa imposta venga effettivamente introdotta. Andiamo con ordine.

E’ evidente che l’eventuale applicazione di una imposta patrimoniale feroce e magari progressiva, dovrebbe quantomeno  considerare non solo i patrimoni facilmente colpibili come nel caso delle imposte già in vigore, ma l’intera  ricchezza  del soggetto o del nucleo famigliare a cui l’imposta è rivolta. E ciò per evidenti ragioni di equità impositiva, secondo cui chi  più possiede più paga in termini di imposta.   E quindi, cosa comprendere? Cosa potrebbe essere considerato nella definizione di patrimonio?

Sicuramente gli immobili, anche perché offrono un’ ottima base imponibile che, tuttavia,  dovrebbe quantomeno essere abbattuta delle passività (mutui) . Certamente anche il patrimonio mobiliare (azioni, titoli, obbligazioni, depositi ecc ecc). Ma, oltre questa ricchezza, peraltro già ampiamente tassata, cos’altro potrebbe essere considerato nella definizione di patrimonio del contribuente? 

E qui, potremmo sbizzarrirci con tutto ciò che possa costituire  asset suscettibile di valutazione economica, purché visibile ed individuabile dal fisco. Ecco quindi che potremmo considerare il valore della partecipazione ad una società ancorché non quotata, il valore della nostra impresa, o una barca, un’automobile, e quant’altro possa essere individuato e  definibile nella sua dimensione patrimoniale.

Sicuramente, l’estensione delle tipologie di assets a cui applicare l’imposta patrimoniale, oltre ad offrire una base imponibile tanto più ampia quanto più estese saranno  le specie e i volumi di patrimonio considerati, tenderebbe a favorire  il rispetto di elementi di maggior equità. Tuttavia,  qui emergerebbero fin da subito le prime difficoltà applicative. Innanzitutto, non sempre ciò che costituisce un valore patrimoniale è ben identificabile ed individuabile da parte del fisco. Si pensi, solo per citare alcuni esempi, a dei  quadri di valore, a delle  opere d’arte,  a vasi antichi, o una collezione di arazzi. Questi, in genere, sono beni che talvolta possono rappresentare dei grandi valori, ma difficilmente intercettabili da parte del fisco, poiché raramente censiti e quindi conosciuti all’anagrafe tributaria  nella dimensione patrimoniale (valore) e nella sua collocazione. Ma questi, non sono gli unici valori patrimoniali che potrebbero sfuggire all’interesse del fisco. 

Si pensi, ancora, al denaro contante, a monetati aurei,  a lingotti in oro o altri metalli preziosi, detenuti anche fuori dal perimetro bancario. 

Ecco quindi che, in questi casi, risulta impossibile che il fisco possa colpire beni di cui non ne conosce il valore e soprattutto la collocazione. A meno che lo stato non obblighi il contribuente a produrre una dichiarazione patrimoniale dalla quale emerga anche le ricchezze non note al fisco.

Ragionando invece su altre tipologie di patrimoni  quali, ad esempio, aziende,  quote di partecipazione in società, o più semplicemente una piccola impresa individuale, si porrebbe il problema di attribuire un valore a queste attività, che tenga conto di moltissime variabili e fattori, attraverso i quali, tuttavia,   non sempre si riesce a valorizzare in maniera pertinente l’esatto valore di questi patrimoni. E ciò, neanche attraverso apposite perizie effettuate da professionisti. Il rischio, quindi, è proprio quello di subire una valorizzazione amministrativa da parte dello Stato attraverso delle procedure  che, in maniera più o meno arbitraria, possano valorizzare determinati attivi. Ecco quindi che l’applicazione di imposte patrimoniali straordinarie incorpora molteplici difficoltà che tendono ad aumentare anche in ragione al gettito che si vorrebbe ottenere.

Alcuni esponenti politici, nel recente passato, hanno addirittura evocato una tassa patrimoniale di 400 miliardi di euro, destinata alla riduzione del debito pubblico ( Si confronti, ad esempio, LInkiesta del 24 febbraio 2014 linkiesta.it). 

Per comprendere se è possibile estrarre un gettito così rilevante dalla ricchezza degli italiani,  è opportuno considerare qualche numero fornito dalla Banca d’Italia, nel suo ultimo rapporto sulla ricchezza delle famiglie italiane.
Secondo la Banca d’Italia la ricchezza degli italiani è così costituita:

Attività reali 5.848 miliardi
Attività finanziarie 3.793  miliardi
Passività 912 miliardi.

Le prime  due macro classi di attività, dedotte dalle passività, costituiscono la ricchezza netta degli italiani, che  quindi viene  quantificata in euro 8.477 miliardi di euro.

Il dato, essendo multiplo di oltre quattro volte lo stock di debito pubblico, fa un po’ impressione e suscita l’interesse di chi vorrebbe che, almeno parte di questa enorme ricchezza, possa essere utilizzata per abbattere il debito pubblico confinandolo entro volumi di maggio sostenibilità.

Più in dettaglio, osservando i dati riportati nella figura n. 2 (Le attività reali delle famiglie italiane) si desume che la parte prevalente della ricchezza è costituita da abitazioni, già ampiamente tassata con l’IMU o con altre imposte minori (ma non marginali). Gli oggetti di valore, essendo per lo più costituiti da beni non registrati (preziosi, oggetti di antiquariato, d’arte e da collezione), come abbiamo detto,  sfuggono dalla possibilità di poter essere tassati, per il semplice fatto che il fisco non potrà mai tassare ciò di cui non ne conosce la collocazione e quindi la proprietà.

I fabbricati non residenziali e i terreni, sono anch’essi già tassati. Mentre gli impianti e i macchinari, attrezzature e avviamenti (capitale fisso), rientrando prevalentemente nelle disponibilità delle imprese per l’esercizio delle proprie attività, non potrebbero essere tassati, poiché ciò graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile. Quindi, la parte di ricchezza effettivamente tassabile e che desta l’attenzione da parte del fisco è costituita dai 5 miliardi delle abitazioni, peraltro già ampiamente tassata. In sintesi, da questa ricchezza, è pressoché impossibile estrarre rilevanti gettiti tributari rispetto a quelli già ottenuti dalla tassazione in vigore.

In questa categoria di ricchezza sono ospitate un numero di  attività che, l’analisi prodotta da Bankitalia, sostanzialmente, scompone come riportato nella figura n. 3.
Molta materia imponibile da colpire con un’imposta patrimoniale feroce,  si direbbe! Ma le cose non stanno esattamente in in questi termini. Vediamo perché.

Prima di tutto occorre scomputare il denaro contante: tassare il contante, fino a quando questo rimane tale, è un esercizio impossibile da praticare. 

Non deve sorprendere, infatti, che sempre più spesso si sente dire che il mondo politico sarebbe favorevole ad una progressiva abolizione del denaro contante. Ciò perché, per obbligo normativo, questo verrebbe depositato in banca e quindi diverrebbe individuabile da parte del fisco, facendo emergere materia imponibile da colpire.

Esistono inoltre altre categorie di attività che, sebbene parzialmente note al fisco, tassarle con un’imposizione patrimoniale, risulterebbe abbastanza difficile e soprattutto rischierebbe di fare più danni che altro. E’ il caso, ad esempio, dei crediti commerciali. Tassare un credito vantato da un’azienda, benché tecnicamente possibile -obbligando ogni impresa a rendere noti al fisco i rispettivi crediti commerciali attraverso apposita comunicazione-  appare poco ortodosso, oltreché distruttivo. E poi, è evidente che al credito di un’azienda, corrisponda un debito di un’altra azienda. Siccome sarebbe ragionevole attendersi che il credito possa essere scomputato dal debito, alla fine, la base imponibile  sarebbe comunque limitata e un’eventuale imposizione patrimoniale, anche in questo caso,  graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile.

Discorso del tutto simile può essere osservato per le riserve assicurative. Anche queste potrebbero essere tassate, ma non senza difficoltà, contraddizioni, e non senza arrecare più danni che guadagni. L’applicazione di una imposta patrimoniale feroce, verosimilmente, andrebbe a colpire anche i fondi pensione e i fondi assicurativi, verso i quali un numero non del tutto indifferente di risparmiatori  hanno riposto le speranze per  ottenere l’integrazione pensionistica, al fine di  integrare (o sostituire) la pensione erogata  dai vari enti previdenziali.  

Sotto questo punto di vista, le scelte del governo volte all’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria, contrasterebbero con le politiche di welfare e con le varie riforme pensionistiche varate negli ultimi 10/15 anni, o forse più. Al riguardo, vale la pena ricordare che tali politiche hanno impresso uno stimolo allo sviluppo di forme pensionistiche alternative, capaci di integrare i flussi  finanziari del risparmiatore in età pensionabile, al fine di arginare la progressiva diminuzione delle prestazioni garantite dai veri enti pensionistici. Non un problema da poco, direi

Anche la ricchezza riconducibile alle partecipazioni in società di capitali non quotate (circa 562 miliardi di euro) o alle partecipazioni in società di persone o quasi società (circa 211 miliardi di euro) è di difficile imposizione poiché, essendo questa  una ricchezza riconducibile essenzialmente a partecipazioni in piccole società che non hanno una valutazione di mercato giornaliera (come invece avviene per le società quotate), oltre ad essere del tutto astratta, occorrerebbe definire un criterio attendibile di valutazione della partecipazione. Benché sia possibile effettuarlo per via amministrativa, il rischio è proprio quello di subire una valorizzazione arbitraria da parte dello Stato attraverso delle procedure  che possano valorizzare determinati asset non in maniera pertinente. In sostanza, è un po’ come oggi avviene con  gli studi di settore per la quantificazione dei  redditi di impresa. 
E   anche in questo caso l’esperienza ci  conferma quanto possano risultare arbitrarie e non pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel caso di imposte patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che queste comporterebbero anche un’ulteriore abbattimento della competitività della imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione di redditività patita  con l’imposta applicata, attraverso un aumento di prezzi che le renderebbero ancor meno competitive,   aggravando una situazione già critica.

Figura 4: La tabella riporta i dati relativi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane nell’anno 2014, a parere dell’autore “facilmente” tassabile con imposte patrimoniali straordinarie. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca d’Italia.

Gli investimenti finanziari (ossia in titoli di stato,  fondi comuni, azioni ecc) per loro natura, si prestano  ad essere colpiti con maggiore attitudine rispetto ad altre tipologie di asset. Ma anche in questo caso, l’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria fortemente invasiva in termini di prelievo fiscale, rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad esempio, ad un pacchetto di azioni  detenute da un risparmiatore, supponiamo per 100.000 euro,  e che vengano colpite da un imposta straordinaria di qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore non dovesse disporre di liquidità sufficiente  per provvedere al pagamento dell’imposta, egli sarebbe costretto a liquidare  parte del proprio investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere al pagamento dell’imposizione tributaria. Questo,  se effettuato su scala rilevante, determinerebbe pericolose distorsioni di mercato. 

Si pensi, ad esempio, alla caduta dei prezzi che si potrebbero determinare su un titolo: il risparmiatore ne risulterebbe doppiamente penalizzato poiché, oltre a subire una diminuzione del patrimonio per effetto dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento  del proprio portafoglio titoli per effetto delle vendite sui titoli.  Questo appare  tanto più vero nel nostro mercato finanziario, il quale, essendo di modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla possibilità di variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui. Inoltre, ciò rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri (quindi esenti da imposta), che in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti azionari  a buon mercato per effetto della depressione dei prezzi causata da una patrimoniale feroce. Evidentemente. le conseguenze nefaste non si esaurirebbero con le casistiche appena descritte, ma andrebbe ben oltre.

Discorso analogo potrebbe essere effettuato per le obbligazioni societarie (soprattutto bancarie) e i titoli di stato. Ma, in quest’ultimo caso, occorre effettuare qualche ulteriore ragionamento in virtù del fatto che, il titolo di stato, essendo un debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio attraverso l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe essere tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di Stato nel portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo caso, laddove  non si dispongano di risorse necessarie per poter corrispondere l’imposizione tributaria, lo  Stato potrebbe effettuare una compensazione tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il proprio debito (titolo di stato), diminuendone o azzerandone gli  interessi previsti o, nei casi più “estremi”, decurtandone il capitale alla scadenza del titolo. In buona sostanza, un default mascherato da una patrimoniale.

Concludendo, le classi di attività che si prestano ad essere colpite con maggior attitudine, anche con imposizioni feroci,  sono proprio quelle liquide (ad esempio depositi bancari, di conto corrente, o postali), poiché aggredire tali patrimoni costituisce, per lo stato, garanzia della celerità e del buon esito  della pretesa tributaria. In tal senso, anche quelle attività in cui lo stato risulta essere debitore (titoli di stato) si prestano con particolare attitudine a soddisfare le proprie esigenze, in quanto, lo stato, potrebbe agevolmente compensare la sua posizione debitoria  con il credito emerso per effetto dell’imposizione fiscale.

Analogo discorso può essere osservato per le obbligazioni bancarie, le quali, come noto anche per via della recente introduzione della normativa sui salvataggi bancari, potrebbero essere sottoposte all’azzeramento (o alla riduzione) al fine di obbligare  il risparmiatore a contribuire al salvataggio di qualche banca che potrebbe trovarsi in stato di difficoltà.

A mero titolo informativo, giova segnalare la proposta di iniziativa popolare avanzata dalla Cisl. La proposta avanzata dal sindacato prevede l’introduzione di un’imposta patrimoniale  ordinaria sulla ricchezza netta che cresca al crescere della ricchezza mobiliare e immobiliare complessiva, con l’esenzione totale sugli imponibili delle famiglie fino a 500.000 euro di ricchezza, con l’esclusione da tale computo della prima casa. L’imposta andrebbe a colpire l’ammontare complessivo dei valori mobiliari ed immobiliari con aliquote crescenti su diversi scaglioni di valore, dai 500 mila euro in su (si veda Il Sole 24 Ore del 2 settembre 2015, ilsole24ore ).

Pensare che con un’imposizione patrimoniale straordinaria possa ottenersi un gettito di 400/500 miliardi di euro come quanto auspicato da “autorevoli” commentatori, appare del tutto irrealistico, oltreché destabilizzante per uno stato di diritto, ove la proprietà privata e la tutela del risparmio è anche garantita costituzionalmente. Ma ciò non toglie che questo patrimonio  possa essere comunque esposto al rischio di qualche forma di imposizione patrimoniale o, peggio, confisca.

L’imposta patrimoniale, oltre ad essere una tassa iniqua ed ingiusta per definizione (poiché  andrebbe a colpire anche i patrimoni realizzati con flussi di reddito già ampiamente tassati), comporterebbe il concretizzarsi di un evento deprecabile che comprometterebbe in maniera sostanziale anche la già precaria fiducia dei risparmiatori nei confronti dello Stato. Tuttavia, i risparmiatori dovrebbero comunque adottare quelle strategie più idonee (anche in relazione al proprio status e alla composizione del proprio patrimonio) a limitare l’impatto di un’eventuale inasprimento delle imposte esistenti o dall’introduzione di qualche forma di imposizione patrimoniale straordinaria.

Scritto il  alle 12:04 da Paolo Cardenà
Scritto il alle 12:04 da Paolo Cardenà

Scritto il  alle 12:04 da Paolo Cardenà
Scritto il  alle 12:04 da Paolo Cardenà
Fonte: qui

Nessun commento:

Posta un commento