MA PISANU NON ERA UN VECCHIO AMICO DAGLI ANNI ’70 DEI PIDUISTI BERLUSCONI E FLAVIO CARBONI?
NEL 1982, DA SOTTOSEGRETARIO AL TESORO, RASSICURÒ IL PARLAMENTO: “L’AMBROSIANO È A POSTO”, DUE GIORNI DOPO ROBERTO CALVI FUGGÌ…
Walter Veltroni per corriere.it
L’onorevole Beppe Pisanu è stato, nel 1978, capo della segreteria politica di Benigno Zaccagnini. È quindi un testimone privilegiato di quei mesi di travaglio e dolore vissuti a Piazza del Gesù.
Che ricordo hai dei giorni del rapimento Moro?
«Li ho vissuti come un’unica interminabile giornata scandita da paure, incertezze, tribolazioni e qualche barlume di speranza».
Zaccagnini come attraversò quel periodo?
«Lo visse drammaticamente perché lacerato: da un lato il desiderio di salvare la vita del suo più grande amico, leader politico del suo partito e dall’altro l’esigenza di salvaguardare lo Stato e di rispondere adeguatamente alla sfida sanguinosa delle Brigate rosse. Un fenomeno che oggi forse abbiamo inquadrato dopo tanti anni di analisi e ricerche, ma che allora sembrava militarmente organizzato e capace di portare i suoi attacchi in tutta Italia, persino durante i cinquantacinque giorni. Era una forza sconosciuta, che aveva consensi evidenti nelle fabbriche, nel mondo della cultura, nei giornali...».
Il tuo 16 marzo? Dove eri, come sapesti la notizia?
«Stavo uscendo di casa per andare alla Camera, quando mi raggiunse la telefonata di una mia segretaria che mi diceva confusamente di una aggressione a Moro, che era stato sequestrato, che c’erano dei morti e di andare subito a Palazzo Chigi dove mi attendeva Zaccagnini. La voce era talmente alterata che mi apparve uno scherzo di cattivo gusto, mi sembrava quasi che la segretaria ridesse, invece stava piangendo».
Perché le Br scelsero il 16 marzo?
«Io credo perché eravamo alla consacrazione parlamentare del progetto politico di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer».
Tu credevi in quel progetto?
«Sì, ci credevo profondamente. Va ricordato che avevamo, col Pci, approcci diversi. Io ovviamente condividevo quello moroteo, la solidarietà nazionale. Berlinguer sottolineava invece l’importanza del compromesso storico come l’esito della riflessione sulla vicenda cilena di Allende, ed esplicitava un richiamo chiarissimo al primo storico compromesso, che era quello della Costituzione. E quel compromesso aveva affascinato Moro. Lui parlava della Costituente con una nostalgia da innamorato. Ricordava i confronti appassionanti, specialmente sui primi tre articoli, tra Dossetti, lui, La Pira da un lato e dall’altro Togliatti, Marchesi, Lelio Basso, Nilde Iotti. E lo ricordava come un periodo politicamente felice, di grandi architetti che diedero vita, nonostante la durezza estrema dei conflitti politici del tempo, alla bellissima Costituzione italiana».
Hai mai avuto la sensazione che ci fosse la reale possibilità che Moro fosse liberato?
«Più che la sensazione, la speranza. E il momento almeno per me più positivo, fu la lettera di Paolo VI agli uomini delle Brigate rosse. Mi illusi che, avendo ottenuto un’interlocuzione così alta, i brigatisti potessero considerare raggiunti gli scopi politico propagandistici della loro impresa e quindi desistere dall’andare oltre. Però al di fuori di quel momento, no, non ci fu mai nulla di così convincente da far sperare nella sua liberazione».
La prospettiva di Moro e quella di Berlinguer non piacevano né agli americani, né ai sovietici...
«Questo era un dato consolidato. Del resto Berlinguer e Moro avevano ricevuto entrambi pressioni veementi, persino minacce. L’uno da Mosca e l’altro da Washington e da almeno altre due capitali dell’alleanza atlantica. Quella operazione politica faceva saltare a gambe all’aria la logica di Yalta, che aveva retto fino ad allora gli equilibri mondiali.
E quindi c’erano interessi fortissimi contro questa operazione: dal punto di vista di Mosca avrebbe accreditato l’eurocomunismo, o meglio l’idea berlingueriana del socialismo nella libertà, affrancando definitivamente da Mosca il più grande partito comunista dell’occidente mentre da parte americana si intravedeva il rischio che i comunisti si avvicinassero pericolosamente ai centri di decisione della Nato».
E da questo punto di vista il lago della Duchessa che segnale era?
«Sulle prime al lago della Duchessa ci credemmo un po’ tutti perché era ritenuto un esito possibile. Almeno noi a piazza del Gesù, altri non so».
E poi?
«E poi si scoprì che era un bluff, ma qui parliamo del senno di poi. Io sto cercando di parlare di quei momenti col senno di allora».
Però poi apparve abbastanza rapidamente che era una manovra...
«Era un’operazione orchestrata. È stata rivendicata come un espediente per stanare le Brigate rosse. Ma è lecito dubitare delle intenzioni e dell’efficacia».
Che impressione ti fa che il comitato che indagava attorno a Cossiga fosse composto per la stragrande maggioranza da iscritti alla P2 e che in quei giorni si aggirasse questo singolare consulente americano che sembrava avere a cuore solo il desiderio di vedere Moro morto?
«La scoperta successiva di questi due elementi a me ha provocato grande inquietudine, sapevo dell’ostilità diffusa che c’era in certi ambienti nei confronti della segreteria Zaccagnini e di Moro. Moro ci aveva trasmesso la percezione chiara che nel Paese c’era una destra profonda, annidata negli angoli bui della società e delle istituzioni, contraria ad ogni forma di rinnovamento e pronta ad intervenire con ogni mezzo. Cossiga era un amico di Moro e non aveva nulla da spartire con quel mondo.
Certamente fece degli errori e fu lui il primo a riconoscerli quando si dimise da ministro dell’Interno e assumendosi la responsabilità politica di errori e limiti non suoi come quelli degli apparati di sicurezza. Ma da qui a gettare ombre sulla sua rettitudine, ne corre. E ben lo seppero i grandi elettori che, sette anni dopo, lo elessero presidente della Repubblica alla prima votazione».
Le lettere di Moro, fin dall’inizio, vengono fatte passare come totalmente estorte. Invece a leggerle c’è tutto il filo del modo di ragionare, della visione del mondo di Moro. Perché fu fatta questa operazione di cordone, di muro attorno a quelle lettere?
«Parlando sempre col senno di allora, noi avemmo la sensazione che fosse in corso un’azione subdola volta a screditare l’immagine morale e politica di Aldo Moro. Poi la rilettura critica fatta in sedi storiografiche degne di rispetto ha dimostrato che questa operazione le Brigate rosse la fecero veramente, mentendo ripetutamente a Moro e revisionando anche i testi. Questa era allora la nostra preoccupazione. Ma oggi penso che tra i disorientamenti di quei giorni, questo sia stato uno dei più dolorosi. Perché in realtà Moro, a parte i condizionamenti delle Brigate rosse, stava facendo vivere esattamente le idee che aveva sempre sostenuto sul primato della persona umana e sul suo irrinunziabile valore».
C’è una frase nelle lettere di Moro che mi ha molto colpito. In una delle lettere non consegnate e poi ritrovate a Monte Nevoso, ad un certo punto lui dice, te la cito testualmente: «Spero che l’ottimo Giacovazzo si sia inteso con Giunchi». E chi sono Giacovazzo e Giunchi? Erano i due medici che lui si era portato in America e che lo curarono dopo che lui ebbe quel drammatico incontro con Kissinger. Quindi è come se lui stesse dicendo alla moglie che quella era una chiave. È un’interpretazione corretta la mia?
«Non so se è corretta, però è degna di ascolto. I due non si intendevano. Kissinger manifestava rudemente l’insofferenza per Moro. E Moro lo considerava un maleducato. E per uno come lui, che era sempre sorvegliato e gentile, a me suona come un giudizio severissimo».
Lui ti raccontò mai quell’incontro?
ALDO MORO ENRICO BERLINGUER COMPROMESSO STORICO
«No. Però ne ho sentito parlare dai suoi stretti collaboratori. Corrado Guerzoni ha lasciato testimonianze scritte inequivocabili. Furono incontri duri, dai quali Moro uscì provato, soprattutto quello del G7 di Santo Domingo quando non solo gli americani, ma gli europei, soprattutto i tedeschi, gli fecero capire chiaramente che, con la solidarietà nazionale, sarebbe venuto meno il sostegno dell’Europa all’economia italiana.
Il Paese era in gravissime difficoltà: il Pil a meno 4, l’inflazione che marciava verso il 20%, le strade insanguinate dal terrorismo. Gli fecero capire che gli aiuti sarebbero arrivati solo se lui avesse desistito dal progetto politico che stava coltivando. E Moro fu talmente impressionato che esortò i suoi collaboratori a far sapere che stava pensando seriamente di lasciare la politica».
Tu credi alla versione delle Br sull’assassinio di Moro in quel garage di via Montalcini?
«Io credo molto poco a tutto quello che hanno detto i brigatisti rossi. Ho sempre avuto, e ho ancora, l’impressione che abbiano concordato tra di loro una versione comune dell’intera vicenda tacendo più spesso e altre volte mentendo, ma dopo aver concordato silenzi e menzogne anche con loro referenti esterni».
Che quindi esistevano?
«Mi sovviene qui la mia esperienza politica complessiva. Come fa un fenomeno come quello delle Brigate rosse a passare inosservato agli occhi di Servizi segreti oculatissimi e presenti in Italia massicciamente fin dagli inizi della guerra fredda? Non ho nessun elemento concreto per accampare sospetti, penso però che non sia casuale il fatto che terroristi italiani potessero tranquillamente viaggiare da Roma a Parigi, da Parigi al Nordafrica e dal Nordafrica magari in Nicaragua.
ALDO MORO IL COVO BR DI VIA GRADOLI
E che dire di quell’opaca dottrina Mitterrand che consentì a pluriassassini di passare tranquillamente per esuli politici in Francia? Come si fa ad ignorare tutte queste cose? Ripeto io non ho nessun elemento, ma proprio nessuno, per affermare, tanto per essere espliciti, che le Brigate rosse siano state pilotate dall’estero, però mi sembra molto difficile che non avessero collegamenti esterni. E mi spiego perfettamente il fatto che di questo si siano guardati bene dal parlare».
Moretti chiama casa Moro pochi giorni prima dell’assassinio e dice che per evitarlo è necessaria una posizione chiarificatrice di Zaccagnini. Quale fu la su reazione?
ALDO MORO IL COVO BR DI VIA GRADOLI
«Non si capiva in che cosa doveva consistere la posizione chiarificatrice, c’era molta vaghezza. Quando il Partito Socialista ruppe il fronte della fermezza emerse l’idea che era possibile una qualche forma di trattativa con le Brigate rosse. Quello che ricordo bene è che il 26 aprile Zaccagnini, nonostante i pareri dei capigruppo dc Piccoli e Bartolomei e di altri amici, decise di andare lui da Craxi per chiedergli che cosa esattamente si potesse proporre.
Fu piuttosto deluso: Craxi ipotizzò solo la possibilità di concedere la grazia a tre terroristi che non si fossero macchiati le mani di sangue. Questo passo di Zaccagnini suscitò anche critiche da altre parti politiche, dal Partito repubblicano al Partito comunista, che temettero un’intesa tra Craxi e Zaccagnini. Era un tempo di sospetti politici che avvelenavano la ricerca di una soluzione: mentre Pci e Pri temevano una convergenza tra Dc e Psi in casa socialista si temeva invece che l’intesa sulla linea della fermezza tra Zaccagnini e Berlinguer potesse stringersi come una morsa politica sul Partito socialista italiano. Ci furono istanze umanitarie ed esigenze politiche che si intrecciarono ovviamente, talvolta però anche con giochi di più modesta portata».
Come si muoveva in questo labirinto un galantuomo come Zaccagnini?
HENRY KISSINGER GIOVANNI LEONE ALDO MORO ROME 1975
«In questo intreccio di istanze politiche e umanitarie Zaccagnini tenne una linea rigorosa nel senso che umanamente pensò non bisognasse lasciare nulla di intentato — uso un’espressione che lui dettò a me personalmente — per restituire Aldo Moro alla famiglia e al suo partito. E al tempo stesso si attenne lealmente alle intese che si raggiunsero sulla linea della fermezza nella convinzione politica profonda che non ci fosse alternativa a questa linea.
Siamo chiari: l’apertura di una qualche trattativa da parte della Dc avrebbe provocato la caduta immediata del governo e il probabile collasso delle istituzioni già fortemente debilitate. Lasciami aggiungere col senno di poi che uno stato democratico più forte e con una più solida maggioranza parlamentare forse avrebbe accettato la trattativa per la liberazione di Moro e poi avrebbe regolato a suo modo i conti con le Br».
È vero che Leone era disponibile a firmare?
«Per quel che mi risulta al ministero di Grazia e Giustizia si stava studiando il modo di formulare una proposta di grazia senza che ci fosse la richiesta. Si ipotizzava infatti un gesto unilaterale dello Stato, non conseguente ad una trattativa. Si cercò anche di individuare dei brigatisti detenuti che fossero in cattive condizioni di salute. Ed è vero che Leone disse “Ho la penna in mano”».
ALDO MORO IN GIACCA E CRAVATTA A TERRACINA
E la Dc era d’accordo su questo?
«Si lavorò a questa ipotesi ma non fu mai definita perché si percepiva che in tutto questo gran parlare di possibilità di salvezza di Moro, non c’era nulla di concreto. C’erano le sollecitazioni che arrivavano dalle Br e poi le notizie che di rimbalzo giungevano dal Partito Socialista che sembrava avere una sua linea di comunicazione con i brigatisti. Abbiamo appreso dopo che faceva capo a Pace e Piperno. Solo fumi, niente che ci potesse far immaginare a quale gesto avrebbe corrisposto davvero la liberazione di Moro».
BETTINO CRAXI FRANCESCO COSSIGA
Quella di Signorile sull’intenzione di Fanfani di prendere posizione nella riunione della direzione dc del 9 maggio è una ricostruzione che ti convince?
«Non ne sapevo nulla allora e non vorrei far polemiche adesso. Non so cosa Fanfani avrebbe detto in Direzione. La riunione si fece, ma purtroppo fu interrotta perché arrivò la notizia. Arrivò a me. Mi chiamarono al telefono e mi comunicarono che avevano trovato la Renault rossa a via Caetani. Rientrai subito nella sala della Direzione e balbettai qualcosa all’orecchio di Zaccagnini. (A questo punto Pisanu si ferma, commosso). Lui si alzò, pronunziò poche parole. Si fece silenzio e la riunione finì. Sono comunque certo che se Fanfani avesse indicato una via praticabile Zaccagnini lo avrebbe assecondato. Di questo ho la certezza morale».
MOSTRA FOTOGRAFICA SU ALDO MORO (8)
Voi sapevate che Fanfani stava per fare un discorso di questo tipo?
«No, io almeno non lo sapevo. Può darsi lo sapesse Zaccagnini però negli anni successivi non me ne ha mai parlato. Per la verità era diventato difficilissimo parlare di quelle vicende tra di noi, perché la ferita faceva male davvero. In molti rimanemmo feriti, ma Zaccagnini fu ferito a morte».
Perché la sinistra Dc perde il Congresso dell’80?
«Essenzialmente perché non c’era più Moro. Noi morotei eravamo esattamente l’8,5 per cento della Dc, la corrente più piccola del Partito. Ma Moro era l’equilibratore supremo della vita interna della Democrazia cristiana. Con la sua morte noi zaccagniniani e anche le altre sinistre interne perdemmo la guida vera. La segreteria Zaccagnini era stata una geniale invenzione di Moro, con l’accordo di Fanfani. E tutta l’esperienza di Zaccagnini, fino a via Caetani, fu ispirata dal pensiero di Moro.
MOSTRA FOTOGRAFICA SU ALDO MORO (2)
Zaccagnini era il capo del popolo democristiano, Moro era il leader più prestigioso e aveva già lasciato segni indelebili lungo i primi trent’anni della storia repubblicana. Dalla costituente alla ricostruzione, dal centrismo al centrosinistra e infine alla solidarietà nazionale, Moro fu sempre, all’interno della Dc e nei rapporti con gli altri partiti, l’uomo del dialogo e del confronto.
Ma innanzitutto fu un cattolico di profonda fede con un senso alto della laicità della politica e dello Stato. Era stato capace di far evolvere, Dio solo sa con quali resistenze, la politica italiana verso la prospettiva di una democrazia dell’alternanza. Per questo ha pagato. Nessuno può dimenticarlo».
MOSTRA FOTOGRAFICA SU ALDO MORO (18)
È vero che nel 2006, quando il risultato delle elezioni era incerto, fosti sollecitato, come ministro dell’Interno, a dichiararle non valide?
«Diciamo che ci furono chiacchiere molto confuse da parte di gente che non sapeva che il ministro dell’Interno non aveva alcun potere per interferire sulle procedure elettorali, perché i risultati delle elezioni si proclamano soltanto nelle apposite sezioni delle Corti d’Appello. Non a caso il nostro ordinamento affida alla magistratura e non al ministero dell’Interno la gestione dei processi elettorali. Ci mancherebbe altro, se fosse così saremmo in una dittatura».
IL CADAVERE DI ALDO MORO NELLA RENAULT 4 ROSSA
Ti chiedo infine di ricordare un momento vissuto con Zaccagnini.
«Un giorno gli chiesi perché mai nel testo di un discorso che doveva di lì a poco pronunciare avesse cancellato per tre volte la parola disoccupazione e l’avesse sostituita con la parola disoccupati. Mi rispose: “Perché disoccupazione evoca astrattamente una questione sociale, mentre disoccupati evoca un padre di famiglia che una sera torna a casa e dice a moglie e figli “ ho perso il posto di lavoro, da domani dobbiamo stringere la cinghia, finché non ne trovo un altro”. Era l’umanità della politica. Era Zaccagnini».
TRAVAGLIO: CHI È BEPPE PISANU, UN DINOSAURO CON PROVATE FREQUENTAZIONI PIDUISTE (CARBONI, CALVI E LO STESSO SILVIO) - DA SOTTOSEGRETARIO AL TESORO RASSICURÒ: “L’AMBROSIANO È A POSTO”, DUE GIORNI DOPO CALVI FUGGÌ…
Marco Travaglio per "il Fatto Quotidiano" – articolo del 13 ottobre 2011
Uno dei Tre dell'Avemaria, imprescindibile traino del nuovo che avanza, è Beppe Pisanu, senatore del Pdl. Su di lui, oltreché su Scajola e Formigoni, si appuntano le speranze di molti che sognano il ribaltone. Speranze davvero ben riposte, come dimostra la biografia di questo giovine virgulto della Nuova Politica.
Nato a Ittiri (Sassari) 74 anni fa, democristiano da quando aveva i pantaloni alla zuava, deputato da 11 legislature, cioè dal 1972, fu capo della segreteria di Zaccagnini (sinistra Dc) negli anni del compromesso storico col Pci; poi sottosegretario al Tesoro e alla Difesa nei governi Forlani, Fanfani, Spadolini, Goria e Craxi; nel '94 vicecapogruppo vicario e dal ‘96 capogruppo di Forza Italia alla Camera; nel 2001 ministro della Verifica del Programma e poi dell'Interno nel governo Berlusconi-2 dopo le prime dimissioni di Scajola che aveva insultato Marco Biagi appena assassinato; dal 2008 presidente dell'Antimafia.
ROBERTO CALVI E MOGLIE CON PAOLO VI
PISANU BERLUSCONI CALVI CARBONI
Il primo scandalo che lo travolge risale addirittura al 1983, per i suoi rapporti col banchiere bancarottiere piduista Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, col gran maestro della massoneria Armando Corona e con altri due piduisti di sicuro avvenire: Silvio Berlusconi e Flavio Carboni. Tutto comincia nell'estate dell'80, quando B. e Carboni brigano per regalare a Porto Rotondo una bella colata di cemento (progetto "Olbia 2"). Carboni ospita Pisanu e B. sul suo yacht "Punto Rosso".
L'estate seguente Beppe fa un'altra conquista: veleggia sulla stessa barca di Carboni con Calvi, fresco di condanna per reati valutari e in libertà provvisoria. Memorabile la testimonianza di Pisanu davanti al pm milanese Pierluigi Dell'Osso, che indaga sul crac Ambrosiano, nel 1982, mentre Carboni è in carcere a Lugano perché coinvolto nelle indagini sulla fuga e la morte di Calvi. Carboni, spiega Pisanu, era "un interlocutore valido per le forze politiche richiamantisi alla ispirazione cattolica". Insomma, il pio terzetto non discuteva d'affari, ma di teologia e mariologia.
"Carboni - prosegue Pisanu, riuscendo a restare serio - mi disse che il Berlusconi aveva interesse a espandere Canale5 in Sardegna, talché lo stesso Carboni si stava interessando per rilevare a tal fine la più importante rete televisiva sarda "Videolina" (fondata da Nicky Grauso, ndr)".
Non solo: "Il Carboni mi disse di essere in affari col signor Berlusconi anche con riguardo a un grosso progetto edilizio di tipo turistico denominato ‘Olbia 2'. Fin dall'inizio ritenni di seguire gli sviluppi delle varie attività di Carboni, trattandosi di un sardo che intendeva operare in Sardegna". Il pio sodalizio Carboni-Pisanu si estende poi miracolosamente all'affaire Ambrosiano.
Pisanu, sottosegretario al Tesoro, scortato dall'amico Flavio, incontra Calvi per ben quattro volte. E subito dopo, l'8 giugno '82, risponde alla Camera alle allarmate interrogazioni delle opposizioni sul colossale buco dell'Ambrosiano, aggravato dai debiti miliardari del Banco Andino. Niente paura - rassicura Pisanu - è tutto sotto controllo: "Le indagini esperite all'estero sull'Ambrosiano non hanno dato alcun esito". La sera dopo, 9 giugno, Pisanu è di nuovo a cena con Carboni: pare che il tema della serata sia la nomina del nuovo Procuratore generale di Milano di un giudice "amico", Consoli, presente al convivio. L'indomani, 10 giugno, Calvi fugge dall'Italia, per finire come sappiamo.
Nove giorni dopo il governo dichiara insolvente l'Ambrosiano, mettendo sul lastrico migliaia di risparmiatori. Pochi mesi dopo sia l'Ambrosiano sia l'Andino fanno bancarotta. Racconterà Angelo Rizzoli alla Commissione d'inchiesta sulla P2: "A proposito dell'Andino, Calvi disse a me e a Tassan Din che il discorso dell'on. Pisanu in Parlamento l'aveva fatto fare lui. Qualcuno mi ha detto che per quel discorso Pisanu aveva preso 800 milioni da Flavio Carboni". Accusa mai dimostrata, anche se il portaborse di Calvi, Emilio Pellicani, dirà all'Espresso che Calvi aveva stanziato - per "comprare" il proprio salvataggio - 100 miliardi, dei quali "poche decine di milioni" sarebbero finiti anche nelle tasche di Pisanu, "tramite Carboni".
E aggiunge che Pisanu si interessò attivamente del progetto di cessione del Corriere della Sera da parte di Calvi, tentando di pilotare l'operazione "in favore dell'on. Piccoli". Pisanu smentisce e querela Pellicani. Ma intanto si dimette dal governo "per consentire il chiarimento della mia posizione senza condizionamenti legati all'incarico ricoperto". Ascoltato più volte volta dalla commissione Anselmi, ammetterà di avere un po' "sottovalutato" la delicatezza di certe frequentazioni.
La quarantena dura qualche anno, poi la resurrezione grazie al vecchio amico Silvio. Nel 2004 Pisanu viene interrogato come testimone dalla Procura di Palermo a proposito di una telefonata intercettata il 10 gennaio di quell'anno fra Cuffaro e B., che avvertiva il governatore di Sicilia, indagato per favoreggiamento alla mafia, che a proposito delle indagini sul suo conto "io ho saputo qui... la ragione perché ti telefono... il ministro dell'Interno ... mi ha parlato e mi ha detto che tutta la... è tutto sotto controllo".
La sera delle elezioni del 2006, anziché presidiare il Viminale dove affluiscono i risultati dai vari seggi che ondeggiano tra una lieve maggioranza al centrodestra e un leggero vantaggio del centrosinistra, Pisanu si reca più volte a Palazzo Grazioli a colloquio con B. E nei giorni seguenti, mentre il Cavaliere rimane asserragliato a Palazzo Chigi per un mese intero, sparando cifre all'impazzata su fantomatici "brogli" dell'Unione, il ministero di Pisanu contribuisce al caos berlusconiano annunciando l'esistenza di ben 43.028 schede contestate per la Camera e 39.822 per il Senato.
Totale: 82mila, in grado di rovesciare la nuova maggioranza di Prodi nei due rami del Parlamento. Poi il ministro, dopo qualche giorno, ammette candidamente che c'è stato un piccolo "errore materiale". I cervelloni del Viminale hanno distrattamente "sommato le schede contestate alle nulle e alle bianche": le contestate alla Camera non erano 43mila, ma 2131; e al Senato non erano 39mila, ma 3135.
Da quel momento, Pisanu entra di diritto nella lista degli "inaffidabili". Pochi mesi dopo il suo nome compare nelle indagini su Calciopoli, per alcune telefonate (senza rilevanza penale) fatte nel 2005, da ministro dell'Interno, a Luciano Moggi, per chiedere dall'onnipotente boss pallonaro il salvataggio della Torres Sassari in serie C1. Missione compiuta, anche quella. Fonte: qui
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