OVVIAMENTE SIA LUI CHE SALA DEVONO FARE QUESTA SCENEGGIATA PER FAR CREDERE CHE CI FOSSE UN'ALTRA STRADA.
POI ARRIVA IL CAPO DELL'ATS MILANO (ENTE REGIONALE!) CHE CHIARISCE LE COSE: ''IL LOCKDOWN DI DOMANI ANDAVA IMPOSTO DUE SETTIMANE FA''
«È UNO SCHIAFFO AI LOMBARDI» L'IRA DI FONTANA CONTRO IL DECRETO
Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera”
«Le richieste formulate dalla Regione non sono state neppure prese in considerazione. Uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi. Un modo di comportarsi che la mia gente non merita». Il governatore Attilio Fontana sbotta all' ora di cena. La disputa scientifico-politica si era trascinata anche per tutta la giornata di ieri. Ma è stato subito dopo il discorso del premier Giuseppe Conte, che Fontana ha alzato i toni: «Comunicare ai lombardi e alla Lombardia, all' ora di cena, che la nostra regione è relegata in fascia rossa senza una motivazione valida e credibile non solo è grave, ma inaccettabile - dice il presidente della Regione -. A rendere ancor più incomprensibile questa decisione del governo sono i dati attraverso i quali viene adottata: informazioni vecchie di 10 giorni che non tengono conto dell' attuale situazione epidemiologica».
Anche ieri, a riempire le ore di un' altra giornata lunghissima, tra Palazzo Chigi e Palazzo Lombardia è proseguito il tiro alla fune sui parametri di valutazione dello stato di avanzamento del virus nel perimetro regionale.
«Sto insistendo perché, prima che si stabilisca dove la Lombardia si collochi, i dati devono essere aggiornati», scrive su Facebook il presidente Fontana nel tardo pomeriggio, quando ancora è nebbia fitta anche sui tempi del provvedimento con cui il ministro della Salute Roberto Speranza sancisce la clausura quasi totale di una decina di milioni di cittadini fino al 3 dicembre. «L' ultima valutazione della cabina di monitoraggio del Cts con l' analisi dei 21 parametri risale a circa 10 giorni fa - spiega il governatore lombardo -.
Ciò è inaccettabile. Le valutazioni devono essere fatte sulla base di dati aggiornati ad oggi, tenendo conto delle restrizioni già adottate in Lombardia, dei sacrifici già fatti dai lombardi in questi 10 giorni». E aggiunge: «Registriamo un primo miglioramento», alludendo all' indice Rt calato a 1,6 e al rapporto tra contagi e tamponi al 17 per cento, cioè ridimensionato di 4 punti in pochi giorni. E mentre Fontana ancora tratta, i consiglieri regionali leghisti fanno partire le prime bordate di parole contro il governo, anticipando il nuovo scontro politico.
Forse anche per questo, già in mattinata, il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è smarcato dalla linea di resistenza-insistenza della Regione: «Le decisioni del governo vanno rispettate e applicate. La tutela della salute dei cittadini è il primo bene da proteggere e noi continueremo a lavorare perché queste disposizioni siano osservate da tutti i milanesi». Ma lo stesso primo cittadino, in serata, via Twitter non risparmia una critica sui tempi lunghi: «Caro governo, sono le 6 di sera, un bar milanese sta chiudendo e ancora non sa se alle 6 di domani mattina potrà riaprire. Quando glielo facciamo sapere?».
Poi contro le scelte del governo si scagliano anche i presidenti della Sicilia Nello Musumeci («Relegarci in "zona arancione" è assurdo e irragionevole») e della Calabria Nino Spirlì, che esprime «rabbia e sgomento».
IL DIRETTORE SANITARIO DI ATS MILANO, VITTORIO DEMICHELI: «IN LOMBARDIA CHIUSURA TARDIVA ANDAVA FATTA DUE SETTIMANE FA»
Simona Ravizza per il “Corriere della Sera”
Quali sono i dati che fanno diventare da domani la Lombardia zona rossa?
«Gli indicatori che mostrano come in Lombardia il contagio cresca in fretta e in modo incontrollato, in base ai quali è stato deciso l' ingresso nella lista delle Regioni in zona rossa, sono prevalentemente tre: l' ormai noto indice Rt, l' aumento della percentuale di tamponi positivi e la scarsa tenuta del sistema di tracciamento dei contatti» spiega Vittorio Demicheli, epidemiologo e membro della Cabina di regia del ministero della Salute, appena terminata in videoconferenza la riunione decisiva.
Qual è l' indice Rt?
«L' Rt regionale considerato, ossia l' ultimo che noi abbiamo esaminato in Cabina di regia, è a 2,01. Così la Lombardia viene inquadrata nello scenario 4, quello in cui il valore è prevalentemente e significativamente maggiore di 1,5. Al di là dei tecnicismi, uno scenario di questo tipo, secondo le indicazioni dell' Istituto superiore di Sanità, "potrebbe portare rapidamente a una numerosità di casi elevata e chiari segnali di sovraccarico dei servizi assistenziali, senza la possibilità di tracciare l' origine dei nuovi casi"».
E la percentuale di tamponi positivi?
«In Lombardia i nuovi infettati sono 461 abitanti su 100 mila, lo 0,4% della popolazione. Il dato dei positivi sulla base dei tamponi eseguiti è pari al 26,6%. In aumento costante».
L' altro indicatore fa riferimento al contact tracing.
Cosa esprime?
«È la forte difficoltà nel tracciare in modo completo le catene di trasmissione con il conseguente aumento dei casi al di fuori di focolai definiti.
Purtroppo il contact tracing è in ritardo, nonostante gli sforzi nel potenziamento degli operatori destinati a tracciare i contatti a rischio e l' adozione dell' auto-tracciatura».
I dati sulla Lombardia danno in forte sofferenza anche gli ospedali. Com' è la situazione?
«Ci sono 1.075 letti di Terapia intensiva, il tasso di occupazione è del 40%. La soglia di criticità è identificata al 30%. Il tasso di occupazione dei posti letto per i ricoveri ordinari è al 37%, al limite della soglia critica fissata al 40%».
L' andamento dell' epidemia sta, però, rallentando: nella settimana terminata con il 21 ottobre l' aumento dei casi rispetto alla precedente è stato +140% (da 7.458 a 17.960), al 28 ottobre la crescita è stata del +100% (35.922), a ieri +49% (53.665). Un andamento simile vale anche per ricoveri ordinari e in Terapie intensive.
«È un dato di fatto. Ma ciò non toglie che per la Lombardia, dati alla mano, il lockdown deciso ieri dal premier Giuseppe Conte e dal ministro Roberto Speranza sia necessario. Il problema semmai è che è in ritardo di due settimane».
Cosa intende dire?
«I dati dell' ultimo monitoraggio, almeno di quello che ho in mano io come membro della Cabina di regia, si riferiscono alla settimana tra il 19 e il 25 ottobre. Erano indicatori che davano segnali di allerta precoce. Oggi la situazione è peggiorata».
L' indice Rt, però, è migliorato, almeno secondo il monitoraggio dell' Ats di Milano: oggi è a 1,6, non più 2,01.
«Per la Lombardia lo scenario non cambia. Piuttosto, dal mio punto di vista, oggi ci sono già almeno altre 11 Regioni con gli ospedali in grave sofferenza».
L' assalto del virus su Milano nelle ultime 4 settimane: 7.458 nuovi casi, poi 17.960, 35.922, a ieri 53.665. Cosa ci dobbiamo aspettare?
«Forse si inizia a vedere qualche risultato delle misure restrittive scattate il 22 ottobre. Ma per rallentare davvero la curva dei contagi non sarebbero bastate».
Fonte: qui
LA WATERLOO DI MILANO: CON IL LOCKDOWN DURO RISCHIA LA BANCAROTTA
LA LOMBARDIA TEME IL DISASTRO ECONOMICO CHE POTREBBE PORTARE AL COLLASSO “QUASI 60 MILA IMPRESE DI COMMERCIO AL DETTAGLIO” OLTRE “ALLE 55 MILA DELLA RISTORAZIONE, DELL'ALLOGGIO E DEI SERVIZI”, IN UNA REGIONE CHE VALE, DA SOLA, PIÙ DEL 20% DEL PIL
LA RABBIA DEGLI ESERCENTI: “SE STIAMO CHIUSI SERVONO PIÙ AIUTI O NON SOPRAVVIVIAMO”
Alberto Mattioli per “la Stampa”
«Questo governo pensa che sia più importante quello che abbiamo sulla testa di quello che ci mettiamo dentro».
La battuta migliore di una giornata surreale la fa una sciura molto professoressa democratica in coda alla cassa della Feltrinelli di corso Buenos Aires dopo aver fatto un' ampia scorta di cibo intellettuale per reggere alla clausura prossima ventura.
Più tardi arriverà la lieta novella: le librerie resteranno aperte, unica eccezione, insieme con parrucchieri, alimentari e farmacie, alla serrata generale.
O almeno così pare. Mentre a Roma le «interlocuzioni» si eternizzano, non si sa ancora se e quando Milano sarà chiusa insieme al resto della regione. Incertezza totale, finché anche il sindaco Beppe Sala si stufa e alle 18.32 se ne esce con un meraviglioso tweet da milanese imbruttito (e imbufalito): «Caro Governo, sono le 6 di sera, un bar milanese sta chiudendo e ancora non si sa se alle 6 di domani mattina potrà riaprire. Quando glielo facciamo sapere?».
Poi Conte va in onda in prima serata e si viene a sapere che sì, la Lombardia è in zona rossa, ma resta ancora un giorno di tregua, oggi, prima della serrata generalizzata.
Ma a Milano nessuno si faceva illusioni. E l' atmosfera è più da rassegnazione che da rivolta, nonostante i numeri raccontino una specie di Waterloo economica.
Confcommercio Lombardia parla di uno scenario «da vero disastro economico» che potrebbe portare al collasso «quasi 60 mila imprese di commercio al dettaglio» oltre «alle 55 mila della ristorazione, dell' alloggio e dei servizi», in una regione che vale, da sola, più del 20% del Pil. Confcommercio mette in chiaro fin d' ora che «i ristori previsti non sono sufficienti» e che «rischiamo di bruciare i consumi del Natale, e non possiamo permettercelo».
Negozi, bar e aeroporti Da qualsiasi parte lo si guardi, il lockdown sembra sinonimo di bancarotta. La Coldiretti regionale stima in un miliardo di euro la perdita di fatturato dei 51 mila bar, ristoranti e pizzerie della Lombardia, 18 mila solo in provincia di Milano, con disastrose conseguenze a cascata sull' intera filiera dell' agroalimentare.
Armando Brunini, amministratore delegato di Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Malpensa e Linate, 30 mila dipendenti, informa che il traffico è calato dell' 85%. Guglielmo Miani, presidente del MonteNapoleone District, 130 negozi del quadrilatero della moda, una delle più alte concentrazione di lusso del mondo, accusa: «La chiusura non è la soluzione. I consistenti danni economici potrebbero diventare strutturali».
«Meglio chiusi che aperti male», ammette però Paolo Peroli del Comitato esercenti dopo l' ennesima protesta davanti a Regione e Comune. «Ma se stiamo chiusi servono più aiuti o non sopravviviamo. Hanno detto che i ristori arriveranno il 15 novembre. Tre o quattro giorni di ritardo sono ammissibili; di più, no. Poi sicuramente non rimarremo fermi».
I luoghi simbolo Però il vero problema non è quando si torneranno a tirare su le serrande, ma se si potrà farlo. Anche perché non lo dice quasi nessuno, ma questo secondo lockdown potrebbe risultare anche peggiore del primo. «Perché la prima volta un' azienda sana e con i bilanci in ordine come la mia ha potuto ottenere degli aiuti bancari.
La seconda, in questa incertezza, forse no e in ogni caso non alle stesse condizioni», spiega Pier Galli, titolare del «Galleria», storico ristorante appunto lì, in Galleria, in epoche non pandemiche salotto buono di Milano, oggi un deserto perché i turisti non ci sono più e la Scala è chiusa. Lui ha 31 dipendenti che andranno in cassa integrazione, «tuttavia è improbabile che la percepiscano integralmente. E vivere a Milano costa. Ora, io sono un imprenditore e tiro fuori la grinta per lottare. Ma prima ho avuto la chiusura alle 24, poi alle 23, poi alle 18 e adesso, pare, totale: sono più sconfortato che arrabbiato. Come ha detto la signora Merkel, che almeno è sincera: non si vede la luce alla fine del tunnel».
Stesso clima in Buenos Aires, la via commerciale più lunga d' Europa, termometro infallibile della salute economica della città, ieri abbastanza affollata prima che sia troppo tardi. Il problema non è solo lo shopping interruptus, ma il Natale che incombe: «Come ci arriveremo? Con alle spalle un mese di chiusura sommato ai mesi di lockdown saremo allo stremo», dice Franco Catalano, esercente storico della via. Si lamenta perfino chi può restare aperto, come Mauro, barbiere in piazza Gramsci:
«Certo, io non chiudo. Ma se la gente non esce più di casa, per chi sto aperto? Saremo come l' oasi nel deserto: indispensabile ma poco frequentata». E mentre sui social impazza la satira («Milano rossa? No, rossonera») si capisce che stavolta la paura di non farcela è vera e tanta. «Zona rossa? Sì, come il mio conto in banca», scrive un esercente. E non è una battuta acchiappalike.
Fonte: qui
“LA SECONDA ONDATA È PEGGIO DELLA PRIMA: VIENE COINVOLTO IL CENTROSUD"
PARLA NINO CARTABELLOTTA MEDICO E PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE GIMBE: "CI ASPETTA L'INVERNO CON L'INFLUENZA, GLI OPERATORI SANITARI SONO DEMOTIVATI E LE ISTITUZIONI LITIGANO. L'EPIDEMIA POTEVA ESSERE CONTENUTA E GESTITA MEGLIO. LA STRETTA ARRIVA TARDI. DAI PRIMI DI OTTOBRE SERVIVANO LOCKDOWN MIRATI…”
Francesco Rigatelli per “la Stampa”
Com' è successo che rischiamo un altro lockdown?
«La curva epidemiologica è cresciuta molto e questo ha aumentato i casi positivi, la pressione sugli ospedali e i morti. Paghiamo non aver approntato un tracciamento sufficiente e una prevenzione territoriale adeguata».
La crescita del contagio era evitabile o sarebbe arrivata comunque?
«L' epidemia poteva essere contenuta e gestita meglio. Bisognava prevedere che la seconda ondata avrebbe portato altri guai, anche perché ora non ci aspetta l' estate come a marzo».
Intanto slittano le nuove misure, ce ne saranno altre?
«Solo il lockdown totale abbatte in un mese del 50 per cento la curva dei contagi. Il governo interviene sempre sui numeri risalenti a 15 giorni fa e si rassegna all' inseguimento del virus. Anche stavolta le misure mi sembrano insufficienti a piegare la curva».
Cosa manca?
«Dai primi di ottobre servivano lockdown mirati e riguardo all' ultimo Dpcm non è chiaro il funzionamento dei 21 indicatori, anche perché questi dati non sono mai stati resi pubblici nel dettaglio».
Il governo attende perché intravede un appiattimento dei contagi?
«In alcune regioni si nota un minore incremento percentuale dei contagi, ma siamo lontani da un appiattimento. Nell' ultima settimana i nuovi casi sono aumentati del 50 per cento. La curva è in piena crescita esponenziale, anche se la situazione è migliorata dalla settimana precedente quando la crescita era del 90 per cento».
Continua lo scontro governo-regioni, come va letto?
«La pandemia mette in evidenza i limiti di un sistema da riformare. Le regioni hanno l' autonomia nella programmazione e il governo nei livelli essenziali di assistenza. Entrambi possono decidere, ma nell' emergenza per legge prevale lo Stato. Il governo ha suggerito da tempo alle regioni di valutare delle chiusure, ma senza garanzia di ristori si assiste allo scaricabarile di responsabilità».
Lei ha fatto notare che nel Cts tra gli altri c' è un rappresentante delle regioni, Alberto Zoli, ex dirigente sanitario della Lombardia.
«Sì e significa che il Cts prende già decisioni tenendo conto delle regioni, per cui certi capricci non sono motivati dalla mancata rappresentanza».
Le pare possibile, come sostiene Crisanti, che le regioni non diano dati corretti?
«Sì, le regioni sono autonome nella trasmissione dei dati per cui quanto questi siano completi e trasparenti non lo sa nessuno. Fidiamoci pure, ma bisognerebbe che tutto venisse reso pubblico per non scoprire mesi dopo carenze di posti, personale e tamponi».
Dopo le nuove chiusure che tempi prevede?
«Difficile fare previsioni, perché gli interventi sono stati leggeri e progressivi. Inoltre abbiamo regioni con situazioni diverse. Per capire la situazione bisogna guardare agli ospedali».
E Natale?
«Non c' è nessun progetto a riguardo. La mia idea è che i Dpcm siano frutto di disorganizzazione. Ci aspetta un lungo inverno e senza programmazione rischiamo una terza ondata a gennaio insieme al picco dell' influenza».
Fonte: qui
MA TOTI E FONTANA NON VOLEVANO PIÙ AUTONOMIA?
NELLA SECONDA ONDATA STIAMO ASSISTENDO AL PIÙ CLASSICO SCARICABARILE, CON LE REGIONI CHE PRIMA VOLEVANO DECIDERE TUTTO E ORA INVECE VOGLIONO CHE SIA IL GOVERNO A FARE LE SCELTE IMPOPOLARI
ANCHE CONTE VUOLE SCARICARE TUTTO SU SPERANZA E I SUOI SCIENZIATI.
MA GLI ITALIANI NON SONO SCEMI, E IN QUESTO PERIODO VORREBBERO UN LEADER CHE SI PRENDE LE PROPRIE RESPONSABILITÀ, ANCHE DRAMMATICHE (TIPO ANGELA MERKEL)
Estratto dell’articolo di Claudio Tito per “la Repubblica”
(…) In questa seconda ondata (…) si sta assistendo ad una gigantesca corsa per trincerarsi dentro i confini angusti della indecisione. Soprattutto di non apparire autori o fautori delle misure più impopolari. Si tratta, insomma, del più classico scaricabarile. Un gioco al quale si sono iscritti per primi i governatori e a seguire diversi esponenti della maggioranza, del governo e dell' opposizione. Partendo da qualche segretario di partito, passando per alcuni ministri e arrivando al premier.
Colpisce allora che i presidenti delle Regioni, senza distinzione di colore politico e di geografia, siano passati in due mesi dal "decidiamo noi" al "decidete voi". Trasferendo al governo l' onere esclusivo di assumere le scelte più dolorose. «Dateci autonomia, decidiamo noi cosa riaprire», tuonava l' 8 maggio scorso il ligure Giovanni Toti. «Non ho firmato l' accordo con il governo», avvertiva il campano Vincenzo De Luca il 12 maggio.
«Con più autonomia, avremmo affrontato meglio l' emergenza», scandiva il lombardo Attilio Fontana il 29 giugno. E ora? Tutto il contrario. La scelta - ad ascoltarli - spetta all' esecutivo nazionale. È evidente che nello stato confusionale di questa classe dirigente, la protesta dei cittadini e soprattutto la loro paura si trasforma in uno spauracchio per la politica. Il timore di perdere consensi, di calare nell' indice di popolarità sovrasta la semplice e doverosa necessità di governare.
Alcuni dei presidenti regionali hanno sfilato in alcuni recenti cortei insieme ai manifestanti. Davvero un paradosso. E una poderosa opera di deresponsabilizzazione. Il tutto, poi, si amplifica con la nuova versione del Titolo V della Costituzione. Quella riforma fu un gigantesco cedimento alla demagogia federalista che ha attraversato l' Italia tra gli anni '90 e quelli iniziali del secolo in corso.
Ma ora, in maniera palmare, offre ai processi decisionali e istituzionali tutti i suoi enormi limiti. Ai quali il Parlamento dovrebbe rapidamente porre rimedio. Il comportamento incoerente dei governatori impone un ritorno alla centralizzazione di talune competenze a loro affidate. Se non altro per evitare l' anarchia dell' esitazione cui stiamo assistendo.
La deresponsabilizzazione, però, è solo una faccia della stessa medaglia. L' altra è il deficit di leadership. Che sta certamente travolgendo le autorità locali e investe anche quelle nazionali.
La procedura, infatti, che oggi il governo adotterà per varare i provvedimenti più severi, denuncia una carenza. Una insufficienza di guida. Il presidente del Consiglio, contrario fin dall' inizio, a disposizioni meno indulgenti rispetto a quelle in vigore, assumerà delle linee guida comunque non particolarmente rigide.
E scaricherà sui numeri degli scienziati (questo è sicuramente un aspetto positivo dopo il rigurgito negazionista di cui anche le forze di minoranza si sono fatte portavoce) e sul ministro della Salute, Roberto Speranza, il peso delle scelte più gravose per i cittadini.
Se domani alcune Regioni, infatti, dovranno far fronte ad un nuovo lockdown la responsabilità - o la colpa - ricadrà esclusivamente sul titolare della Salute. Speranza avrà il compito solitario di stabilire se la Lombardia o il Piemonte o la Calabria dovranno "chiudere" o meno. Un lavoro ingrato. Si tratta, per il capo del governo, di un grande trasferimento di autorità ma anche di una rinuncia all' esercizio della leadership. Il ruolo del ministro senza dubbio crescerà.
(…) Nella scorsa primavera Conte indubbiamente ha visto crescere il suo consenso nell' opinione pubblica. È accaduto perché dinanzi ad una emergenza si è esposto in prima persona. Come si dice, ci ha messo la faccia. Ha esercitato la sua leadership e gli italiani hanno risposto positivamente.
Adesso, la rincorsa al gradimento ha subito una specie di mutazione genetica. Ha miscelato l' interesse generale con quello personale. La popolarità, in questo modo, diventa fine a se stessa. Ma soprattutto si basa su un calcolo errato. I cittadini, spaventati e impoveriti da questa crisi, chiedono in primo luogo certezze dai propri governanti. Non accettano indecisioni, perché amplificano il loro smarrimento.
Reclamano un leader che dia sicurezza. Che si assuma la responsabilità delle scelte. Anche di quelle più impopolari. Perché capiscono che anche la politica sale sulla loro stessa barca. Del resto è quel che hanno fatto Angela Merkel in Germania e Emmanuel Macron in Francia. Non si sono nascosti. Fonte: qui
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