INTANTO SUI SOCIAL MEDIA ARABI SONO SPUNTATE NUOVE FOTO E NUOVI VIDEO DEL CORPO DILANIATO DEL GENERALE IRANIANO
Iraq, ok Parlamento a espulsione truppe Usa
(LaPresse/AP) - Il Parlamento iracheno ha approvato una risoluzione che chiede di metter fine alla presenza di tutte le truppe straniere nel Paese. L'obiettivo del testo è far sì che gli Usa ritirino i circa 5mila militari presenti in varie regioni dell'Iraq, a seguito dell'uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad.
La morte di Soleimani in diretta
Maria Antonietta Calabrò per www.huffingtonpost.it
Un video del colpo che ha ucciso il generale iraniano Soleimani ad opera degli Stati Uniti venerdì scorso, nei pressi dell’aeroporto internazionale di Bagdad, circola nei social media arabi insieme a materiale fotografico del luogo dell’attentato nell’immediatezza dell’attacco, dei corpi fatti a pezzi, quasi annichiliti, e alle foto di vari fogli e documenti che sono già stati sottoposti ad analisi di intelligence. Si tratta di una documentazione eccezionale di un avvenimento destinato a cambiare i destini del Medio Oriente e a influire anche sulla politica estera e di sicurezza italiana, che Huffpost pubblica in esclusiva per il suo valore testimoniale.
Lo strike.
Il filmato che - allargato fa emergere i simboli grafici della condivisione su social - documenterebbe il momento il cui drone aggancia l’obiettivo, il pulmino dove viaggiava il bersaglio: il quadrante del mirino è lievemente spostato a sinistra rispetto al mezzo, ma proprio per questo riesce a centrarlo. Una voce dall’accento americano fa da guida. Le sovraimpressioni del video sono tutte in arabo. Ci si deve chiedere come mai. La circostanza alimenta uno delle opzioni che viene presa in considerazione in questi giorni in Medio Oriente, ovvero la collaborazione di Servizi arabi nell’operazione. Cosa che potrebbe essere probabile. Un elemento importante anche per la valutazione della legittimità dell’intera operazione ha in fatti a che fare con una delibera dell’Onu del 2007, secondo cui Soleimani non doveva mettere piede in Iraq.
Esterno notte.
Un altro video (che Huffpost ha deciso di non pubblicare le immagini e alcune foto per la particolare crudezza), mostra le riprese nell’immediatezza dello strike. A Baghdad è notte, il buio circonda i resti del generale Soleimani e delle altre persone morte nell’operazione, tutto è ancora sull’asfalto.
I corpi.
I corpi di Soleimani e di chi viaggiava con lui sono annichiliti, anneriti, il volto stravolto, massacrato e gonfio. I corpi sono fatti a brandelli, dilaniati. Si vede il tronco di un uomo, poi a distanza un piede e una gamba sono sull’asfalto.
L’anello.
Una mano troncata indossa un anello che si è sostenuto fosse quello abitualmente indossato da Soleimani. In realtà l’identificazione non è avvenuta ad opera di quell’anello, molto diverso sia per fattura sia per lo spessore della pietra rispetto ad altre immagini di Soleimani vivo. Naturalmente nulla vieta che Soleimani ne avesse più di uno simile. Lasciando da parte questo dettaglio, per certo l’identificazione è avvenuta attraverso l’esame del Dna, come già avvenne per Osama Bin Laden e Abu Bakr al Baghdadi.
I documenti.
Altre foto mostrano i documenti che sono “sopravvissuti” all’impatto: banconote iraniane, fogli, armi. Tutto materiale già sottoposto ad analisi di intelligence. Fonte: qui
LA MORTE DI SOLEIMANI CI RIGUARDA PER MOLTI MOTIVI: INNANZITUTTO PER I MILLE SOLDATI ITALIANI AL CONFINE DEL LIBANO CHE DIVIDE ISRAELE DAI TERRORISTI DI HEZBOLLAH
POI C’È LA MINACCIA DIRETTA ALLE BASI AMERICANE SUL NOSTRO TERRITORIO, SOPRATTUTTO SIGONELLA
INFINE C’È IL DISCORSO ECONOMICO: L’IRAQ È IL NOSTRO PRIMO FORNITORE DI GREGGIO, MENTRE I NOSTRI SCAMBI CON L'IRAN VALGONO DIVERSI MILIARDI…
Gianluca Di Feo per “la Repubblica”
C' è una sottile linea blu che oggi è diventata il posto più caldo del pianeta. Da una parte Israele, dall' altra Hezbollah. In mezzo più di mille soldati italiani con la bandiera dell' Onu, appostati sulle colline lungo il corso del fiume Litani. Il movimento sciita libanese è il figlio prediletto di Qassem Soleimani: lo ha fatto nascere e crescere, fino a renderlo il nemico più temuto da Israele. Due giorni fa Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha promesso che vendicarlo «sarà responsabilità di tutti i combattenti ». Mentre il sito web dell' organizzazione ha usato parole inequivocabili: «È guerra!».
Ora tocca ai nostri militari, in gran parte Granatieri di Sardegna provenienti da Roma, cercare di arginare la tempesta annunciata e il pericolo concreto che Hezbollah scateni la rappresaglia contro Israele. Sostanzialmente da soli, perché l' Italia pare avere dimenticato quel contingente strategico per la pace nel mondo. Nel 2006 il premier Romano Prodi e il ministro Massimo D' Alema erano riusciti a renderci protagonisti, imponendo la nostra presenza a garanzia della tregua. Ma ormai non abbiamo più una politica estera e siamo esclusi dai tavoli chiave, anche quando sono in gioco interessi vitali. E rischiamo di pagare un prezzo altissimo.
Questa crisi infatti potrebbe esporci a ripercussioni gravi, facendo ricadere su di noi un peso drammatico per la morte di Soleimani. Oltre agli uomini in Libano, circa 150 carabinieri e incursori sono asserragliati in una caserma alle porte di Bagdad. Erano lì per addestrare le forze irachene destinate a combattere l' Isis; si ritrovano adesso in un Paese infuriato e ostile. Il vertice americano della missione ha sospeso le attività e tutti si sono barricati nella struttura, pronti a correre nei rifugi a prova di razzo.
Pericoli, seppur più ridotti, per gli 800 soldati dell' Ariete di Pordenone che presidiano la base afghana di Herat e hanno la responsabilità della regione al confine con l' Iran. «Abbiamo innalzato la sicurezza, ma le missioni proseguono », ha detto ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il problema è che, in Iraq come in Afghanistan, gli italiani operano sotto comando americano, fianco a fianco con i militari statunitensi: la furia della vendetta potrebbe non distinguere le uniformi.
Allo stesso tempo, però, i venti di guerra offrono una chance al governo Conte. Gli Stati Uniti non possono affrontare la prospettiva di un conflitto senza contare sulle basi della Penisola, le uniche sicure del Mediterraneo. Da tre giorni dozzine di aerei americani le sfruttano per trasferire truppe verso il fronte della crisi: ad Aviano e a Sigonella c' è un via vai ininterrotto di atterraggi e decolli. A Vicenza la 173ma aerobrigata, la "punta di lancia" per le operazioni in Medio Oriente, è stata mobilitata per andare in Libano.
A Napoli il quartier generale della VI flotta è diventato la prima linea dell' emergenza: la mini-portaerei Bataan carica di marines fa rotta verso est; sottomarini e caccia si preparano a intervenire con i loro missili cruise. Se le cose dovessero peggiorare, sarà poi inevitabile ricorrere alle scorte di Camp Darby. Nella pineta livornese infatti c' è il più grande deposito mondiale di armi e proiettili americani, con una quantità colossale di equipaggiamenti bellici.
Queste strutture sono potenziali bersagli per gli attentati della rete di Soleimani, che ha dimostrato negli anni di sapere agire ovunque. L' altro lato della medaglia è che le basi americane possono essere uno strumento di politica estera per riequilibrare le relazioni con Washington, che in queste ore ha completamente ignorato Roma. Una leva raramente impugnata dai governi italiani, tanto da rendere storica l' eccezione di Bettino Craxi nella notte di Sigonella del 1985 o il no di Giulio Andreotti all' uso degli aeroporti per il raid contro Gheddafi dell' anno successivo. Episodi remoti nel tempo, quando la Prima Repubblica - come ha ricordato ieri D' Alema su questo giornale - aveva una strategia "intelligente" nei confronti del mondo arabo.
Oggi però c' è la necessità di bilanciare in modo diverso i rapporti con Donald Trump e tentare di non essere solo succubi della crisi iraniana. Secondo diversi analisti, Erdogan si è già mosso e sta paventando un prezzo molto alto per concedere agli Usa l' impiego della base turca di Incirlik, la più vicina all' Iran. A spese dell' Italia, perché la contropartita sul tavolo potrebbe essere il via libera americano allo sbarco a Tripoli.
Ma il Sultano ha una politica estera chiara e spregiudicata, mentre noi stiamo a guardare.
Il fronte più caldo è in Libano dove i nostri soldati dividono Hezbollah e Israele Soldati Usa in partenza.
IRAN PARTNER STORICO. E ORA ROMA TEME PER IL PETROLIO
Marco Patucchi per “la Repubblica”
Italia regolarmente tagliata fuori dalle interlocuzioni tra grandi Paesi (compreso il giro di telefonate diplomatiche del sottosegretario di Stato Usa, Pompeo, per il raid contro il comandante Soleimani) ma, proprio perché politicamente defilata, sempre nel cuore degli interscambi economici con Teheran. Fin dal 1957 quando l' Eni di Mattei siglò un primo, storico accordo con la Nioc (National Iranian Oil Company) per scalzare le "sette sorelle" dai giacimenti iraniani.
Da allora i legami economici tra Roma e Teheran non si sono mai interrotti, nonostante appunto l' esclusione del nostro Paese da passaggi decisivi come il vertice di Guadalupe (1979) alla vigilia della Rivoluzione islamica; il negoziato di Francia, Regno Unito e Germania sul nucleare iraniano (2003); e, dieci anni dopo, il trattato Jcopa. Anzi, con il viaggio romano del presidente Rohani del 2015 è iniziato un percorso che ha portato l' Italia ai vertici dell' interscambio con l' Iran: 5,1 miliardi di euro nel 2017 (primo partner commerciale Ue di Teheran), 4,6 miliardi l' anno successivo, fino alla frenata del 2019 per i dazi Usa e il surriscaldamento geopolitico in Medio Oriente.
In testa alla graduatoria dei prodotti italiani esportati in Iran, i macchinari, i medicinali e i prodotti chimici. I venti di guerra scuotono, ovviamente, anche gli interessi economici in Iraq dove, tra l' altro, il Gruppo Trevi ha fatto appena in tempo a completare i lavori di consolidamento della diga di Mosul. Presenti sul territorio Eni, Bonatti-Renco, Nuovo Pignone e decine di imprese, mentre l' interscambio nel 2018 ha sfiorato i 3 miliardi di euro.
Sono soprattutto gli effetti sul settore petrolifero a far tremare l' Italia, visto che nel 2019 l' Iraq è stato il nostro primo fornitore di greggio con 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei consumi totali (l' Iran nel 2018 era al terzo posto con una quota intorno al 10%). Tutto gravita intorno allo stretto di Hormuz, un budello di 34 chilometri tra Iran e Oman, attraverso il quale le petroliere trasportano greggio pari a un terzo del volume di scambi del mercato mondiale.
Eventuali attacchi iraniani nello stretto (ma anche ai pozzi dell' Arabia Saudita, quarto fornitore di petrolio all' Italia), non intaccherebbero più di tanto gli interessi degli Stati Uniti, ormai a un passo dall' autosufficienza petrolifera (grazie soprattutto al fracking ), ma peserebbero sul resto dell' Occidente. Come spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, fino ad oggi le tensioni mediorientali, anche nei momenti di crisi più acuta, sono state ammortizzate dall' abbondanza di offerta di oro nero e dal rallentamento della domanda per le miti temperature invernali. Il facile parallelo tra gli assedi delle ambasciate Usa in Iran (1979) e a Bagdad (2019) suscita però una minacciosa suggestione, perché proprio dall' assalto di quaranta anni fa a Teheran scaturì il secondo shock petrolifero mondiale. Fonte: qui
Gianluca Di Feo per “la Repubblica”
C' è una sottile linea blu che oggi è diventata il posto più caldo del pianeta. Da una parte Israele, dall' altra Hezbollah. In mezzo più di mille soldati italiani con la bandiera dell' Onu, appostati sulle colline lungo il corso del fiume Litani. Il movimento sciita libanese è il figlio prediletto di Qassem Soleimani: lo ha fatto nascere e crescere, fino a renderlo il nemico più temuto da Israele. Due giorni fa Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha promesso che vendicarlo «sarà responsabilità di tutti i combattenti ». Mentre il sito web dell' organizzazione ha usato parole inequivocabili: «È guerra!».
Ora tocca ai nostri militari, in gran parte Granatieri di Sardegna provenienti da Roma, cercare di arginare la tempesta annunciata e il pericolo concreto che Hezbollah scateni la rappresaglia contro Israele. Sostanzialmente da soli, perché l' Italia pare avere dimenticato quel contingente strategico per la pace nel mondo. Nel 2006 il premier Romano Prodi e il ministro Massimo D' Alema erano riusciti a renderci protagonisti, imponendo la nostra presenza a garanzia della tregua. Ma ormai non abbiamo più una politica estera e siamo esclusi dai tavoli chiave, anche quando sono in gioco interessi vitali. E rischiamo di pagare un prezzo altissimo.
Questa crisi infatti potrebbe esporci a ripercussioni gravi, facendo ricadere su di noi un peso drammatico per la morte di Soleimani. Oltre agli uomini in Libano, circa 150 carabinieri e incursori sono asserragliati in una caserma alle porte di Bagdad. Erano lì per addestrare le forze irachene destinate a combattere l' Isis; si ritrovano adesso in un Paese infuriato e ostile. Il vertice americano della missione ha sospeso le attività e tutti si sono barricati nella struttura, pronti a correre nei rifugi a prova di razzo.
Pericoli, seppur più ridotti, per gli 800 soldati dell' Ariete di Pordenone che presidiano la base afghana di Herat e hanno la responsabilità della regione al confine con l' Iran. «Abbiamo innalzato la sicurezza, ma le missioni proseguono », ha detto ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il problema è che, in Iraq come in Afghanistan, gli italiani operano sotto comando americano, fianco a fianco con i militari statunitensi: la furia della vendetta potrebbe non distinguere le uniformi.
Allo stesso tempo, però, i venti di guerra offrono una chance al governo Conte. Gli Stati Uniti non possono affrontare la prospettiva di un conflitto senza contare sulle basi della Penisola, le uniche sicure del Mediterraneo. Da tre giorni dozzine di aerei americani le sfruttano per trasferire truppe verso il fronte della crisi: ad Aviano e a Sigonella c' è un via vai ininterrotto di atterraggi e decolli. A Vicenza la 173ma aerobrigata, la "punta di lancia" per le operazioni in Medio Oriente, è stata mobilitata per andare in Libano.
A Napoli il quartier generale della VI flotta è diventato la prima linea dell' emergenza: la mini-portaerei Bataan carica di marines fa rotta verso est; sottomarini e caccia si preparano a intervenire con i loro missili cruise. Se le cose dovessero peggiorare, sarà poi inevitabile ricorrere alle scorte di Camp Darby. Nella pineta livornese infatti c' è il più grande deposito mondiale di armi e proiettili americani, con una quantità colossale di equipaggiamenti bellici.
Queste strutture sono potenziali bersagli per gli attentati della rete di Soleimani, che ha dimostrato negli anni di sapere agire ovunque. L' altro lato della medaglia è che le basi americane possono essere uno strumento di politica estera per riequilibrare le relazioni con Washington, che in queste ore ha completamente ignorato Roma. Una leva raramente impugnata dai governi italiani, tanto da rendere storica l' eccezione di Bettino Craxi nella notte di Sigonella del 1985 o il no di Giulio Andreotti all' uso degli aeroporti per il raid contro Gheddafi dell' anno successivo. Episodi remoti nel tempo, quando la Prima Repubblica - come ha ricordato ieri D' Alema su questo giornale - aveva una strategia "intelligente" nei confronti del mondo arabo.
Oggi però c' è la necessità di bilanciare in modo diverso i rapporti con Donald Trump e tentare di non essere solo succubi della crisi iraniana. Secondo diversi analisti, Erdogan si è già mosso e sta paventando un prezzo molto alto per concedere agli Usa l' impiego della base turca di Incirlik, la più vicina all' Iran. A spese dell' Italia, perché la contropartita sul tavolo potrebbe essere il via libera americano allo sbarco a Tripoli.
Ma il Sultano ha una politica estera chiara e spregiudicata, mentre noi stiamo a guardare.
Il fronte più caldo è in Libano dove i nostri soldati dividono Hezbollah e Israele Soldati Usa in partenza.
IRAN PARTNER STORICO. E ORA ROMA TEME PER IL PETROLIO
Marco Patucchi per “la Repubblica”
Italia regolarmente tagliata fuori dalle interlocuzioni tra grandi Paesi (compreso il giro di telefonate diplomatiche del sottosegretario di Stato Usa, Pompeo, per il raid contro il comandante Soleimani) ma, proprio perché politicamente defilata, sempre nel cuore degli interscambi economici con Teheran. Fin dal 1957 quando l' Eni di Mattei siglò un primo, storico accordo con la Nioc (National Iranian Oil Company) per scalzare le "sette sorelle" dai giacimenti iraniani.
Da allora i legami economici tra Roma e Teheran non si sono mai interrotti, nonostante appunto l' esclusione del nostro Paese da passaggi decisivi come il vertice di Guadalupe (1979) alla vigilia della Rivoluzione islamica; il negoziato di Francia, Regno Unito e Germania sul nucleare iraniano (2003); e, dieci anni dopo, il trattato Jcopa. Anzi, con il viaggio romano del presidente Rohani del 2015 è iniziato un percorso che ha portato l' Italia ai vertici dell' interscambio con l' Iran: 5,1 miliardi di euro nel 2017 (primo partner commerciale Ue di Teheran), 4,6 miliardi l' anno successivo, fino alla frenata del 2019 per i dazi Usa e il surriscaldamento geopolitico in Medio Oriente.
In testa alla graduatoria dei prodotti italiani esportati in Iran, i macchinari, i medicinali e i prodotti chimici. I venti di guerra scuotono, ovviamente, anche gli interessi economici in Iraq dove, tra l' altro, il Gruppo Trevi ha fatto appena in tempo a completare i lavori di consolidamento della diga di Mosul. Presenti sul territorio Eni, Bonatti-Renco, Nuovo Pignone e decine di imprese, mentre l' interscambio nel 2018 ha sfiorato i 3 miliardi di euro.
Sono soprattutto gli effetti sul settore petrolifero a far tremare l' Italia, visto che nel 2019 l' Iraq è stato il nostro primo fornitore di greggio con 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei consumi totali (l' Iran nel 2018 era al terzo posto con una quota intorno al 10%). Tutto gravita intorno allo stretto di Hormuz, un budello di 34 chilometri tra Iran e Oman, attraverso il quale le petroliere trasportano greggio pari a un terzo del volume di scambi del mercato mondiale.
Eventuali attacchi iraniani nello stretto (ma anche ai pozzi dell' Arabia Saudita, quarto fornitore di petrolio all' Italia), non intaccherebbero più di tanto gli interessi degli Stati Uniti, ormai a un passo dall' autosufficienza petrolifera (grazie soprattutto al fracking ), ma peserebbero sul resto dell' Occidente. Come spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, fino ad oggi le tensioni mediorientali, anche nei momenti di crisi più acuta, sono state ammortizzate dall' abbondanza di offerta di oro nero e dal rallentamento della domanda per le miti temperature invernali. Il facile parallelo tra gli assedi delle ambasciate Usa in Iran (1979) e a Bagdad (2019) suscita però una minacciosa suggestione, perché proprio dall' assalto di quaranta anni fa a Teheran scaturì il secondo shock petrolifero mondiale. Fonte: qui
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