Migliaia di lavoratori sono stati licenziati in Bangladesh per aver partecipato a scioperi e chiesto salari più alti: molti di loro producevano gli abiti venduti da alcuni tra i più prestigiosi marchi europei e statunitensi.
Almeno 1.500 operai sono stati licenziati in Bangladesh per aver partecipato a scioperi e agitazioni che – per un'intera settimana – hanno bloccato la produzione all'interno di dozzine di stabilimenti che lavorano per alcuni tra i più prestigiosi marchi di abbigliamento europei e nord americani, come Zara, H&M e Gap. Decine di migliaia di persone hanno preso parte a mobilitazioni e iniziative di protesta per chiedere la triplicazione del salario mensile, oggi inchiodato ad appena 5.300 taka, circa 60 euro, una cifra considerata decisamente insufficiente a garantire un'esistenza dignitosa.
Gli scioperi organizzati nel corso dell'ultimo mese hanno destato non poche preoccupazioni tra i dirigenti di importanti marchi di abbigliamento, che temono ritardi nella consegna della collezione estiva e di conseguenza ingenti danni economici. Anche per questo la repressione delle proteste è stata dura, con la polizia che ha sparato durante le manifestazioni decine di proiettili di gomma ferendo 10 lavoratori, tra i quali Taslima Akhter, leader di un importante sindacato. Come se non bastasse alle manganellate e agli arresti si sono aggiunti i licenziamenti: martedì scorso, il 20 dicembre, 1.500 operai sono stati allontanati dal posto di lavoro, mentre altri trenta sono stati trasportati in carcere. "Tutte le fabbriche hanno ripreso la regolare produzione. Il 90% dei lavoratori sono tornati ai loro posti", è stato il commento, entusiasta, del capo della polizia.
Come detto, tra le grandi aziende coinvolte ci sono anche marchi come Zara, H&M e Gap: “I marchi occidentali, committenti delle fabbriche tessili bengalesi, sono corresponsabili delle condizioni di sfruttamento in cui versano i dipendenti – spiegava al Fatto Quotidiano a luglio Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti – Gli operai lavorano 12-14 ore al giorno, fanno straordinari obbligatori e salari bassissimi: uno stipendio dignitoso equivale a 337 euro, mentre il salario minimo si ferma a 56 euro. E gli ambienti sono pericolosi: chi va a lavorare in una fabbrica tessile, rischia di non tornare a casa”. Come accade nel 2013, quando in seguito al crollo del complesso Rana Plaza persero la vita 1.129 persone, in larghissima parte lavoratori tessili.
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