Putin a Merkel e Macron: "Interferenze inaccettabili", Minsk schiera l'esercito ai confini
Alta tensione tra l'Europa e Mosca sulla Bielorussia. Vladimir Putin non ha gradito la richiesta di Angela Merkel e Emmanuel Macron di fermare le violenze sui manifestanti dell'opposizione scoppiate dopo le ultim e contestate elezioni. "Interferenze inaccettabili", le ha definite il Cremlino dopo due telefonate di Putin con la cancelliera tedesca e il suo omologo francese. Intanto il presidente bielorusso Alexandr Lukashenko ha fatto sapere di aver dispiegato le unità da combattimento dell'esercito sui suoi confini occidentali e le ha portate in piena operatività. Della situazione ha parlato anche Donald Trump: "Al momento giusto Washington "avvierà un dialogo con Mosca" su ciò che sta accadendo, ha dichiarato il presidente Usa.
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Bielorussia, Trump: "Parlerò con Mosca".
Putin a Merkel: "Inaccettabili interferenze straniere"
Colloqui telefonici tra il presidente francese Macron e la cancelliera tedesca con il leader russo: "Il governo di Minsk non usi la forza contro i manifestanti". Nel Paese continuano le proteste. E il presidente Lukashenko premia le forze dell'ordine per il loro "impeccabile servizio"
Putin ha parlato anche con il presidente francese Emmanuel Macron: "Interferire negli affari interni" della Bielorussia e "mettere pressione sulla leadership" del Paese, è "inaccettabile". Anche il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha avuto oggi una telefonata con Putin sulla questione bielorussa. Lo ha annunciato lui stesso sul suo account Twitter: "Ho appena discusso della situazione in Bielorussia con il presidente Putin", scrive Michel, aggiungendo che "solo un dialogo pacifico e realmente inclusivo può risolvere la crisi" nel Paese.
Le proteste davanti al carcere di Tikhanovskij
La premiazione ai poliziotti
Lukashenko ha deciso invece di premiare con delle medaglie i funzionari delle forze dell'ordine che lo hanno aiutato a reprimere le proteste scoppiate dopo le elezioni per il loro "impeccabile servizio". L'ordine esecutivo era stato firmato il 13 agosto, ma è stato pubblicato solamente oggi: 25 pagine con i nomi dei beneficiari dell'onorificenza che hanno partecipato alla soppressione delle proteste.
La prima riunione del Consiglio di coordinamento
Parlamento Lituania approva sanzioni contro Minsk
CHE SUCCEDE A MINSK?
DAVVERO PENSATE CHE PUTIN SIA COSÌ FESSO DA INVIARE I SOLDATI AD AIUTARE QUEL MATTO DI LUKASHENKO? IGOR PELLICCIARI: “A MOSCA SI FA STRADA LA CONVINZIONE CHE, PER MANTENERE MINSK NELL’ORBITA RUSSA, SIA NECESSARIO ANTICIPARE UN CAMBIO DELLA LEADERSHIP DALL’INTERNO, PRIMA CHE VENGA SOLLECITATO DA FATTORI ESTERNI”
INSOMMA, ZIO VLAD STA CERCANDO UN SOSTITUTO A LUKASHENKO PER EVITARE UNA NUOVA KIEV E C’È GIÀ QUALCHE CANDIDATO
Igor Pellicciari per www.formiche.net
Ci sono date universali di cui è inevitabile ricordarsi anche i minimi dettagli. Una di queste è l’11 settembre 2001.Nonostante il tempo passato, ogni over-35 sa cosa faceva e dove si trovava quel giorno.
Ebbene, nei giorni precedenti l’attacco alle Twin Towers, le cronache internazionali erano dominate da due argomenti non collegati: il timore di una guerra civile in Macedonia (già si sparava alle porte di Skopije) e l’annuncio della fine, data per imminente, del dominio di Alexander Lukashenko in Bielorussia.
Dopo la tragedia di New York l’attenzione internazionale e degli Usa, all’epoca unica potenza in campo dopo la fine del bipolarismo, si spostò dall’altra parte del mondo. Forse proprio per questo (saranno gli storici a dircelo), nel periodo che seguì, in Macedonia la situazione si stabilizzò in un equilibrio precario giunto ai giorni nostri; mentre a Minsk il presidente bielorusso consolidò ulteriormente il suo potere.
Da allora, la situazione in Bielorussia è uscita dalle headlines occidentali, trattata poco e con stereotipi ripetitivi; in primis quello di un Lukashenko controllato dal Cremlino. In realtà i rapporti Mosca-Minsk, poco noti al di fuori dei due paesi, sono stati molto più complessi e tutt’altro che scontati.
In carica da prima dello stesso Putin e considerandosi rispetto a questo un veterano, l’uomo forte di Minsk si è spesso smarcato dal Cremlino, arrivando addirittura allo scontro se non all’incidente diplomatico (l’ultimo poche settimane fa, con il fermo dei contractors di Wagner, accusati di cospirazione). E ricordando, nel suo porsi filo-russo ma autonomo verso Mosca, il comportamento dell’ex- presidente ucraino Viktor Yanukovich, durante il suo catastrofico secondo mandato.
Questi rapporti “dinamici”, pur in un quadro generale di alleanza, sono spesso sfuggiti agli analisti occidentali che hanno sottovalutato la filosofia russa del gestire le proprie regioni periferiche e\o gli alleati-satellite con uno schema da “pax romana”. Vale a dire, facendo accordi con i leader locali amici emersi vincitori dello scontro per il potere, piuttosto che imponendone dei nuovi mandati dal Centro.
È un modello centralista che ha consentito all’Impero (non solo romano) di gestire vastissimi territori; ma anche costretto il Centro stesso a tollerare passivamente scontri di potere nati e risolti localmente tra i propri sostenitori. Le contestate recenti elezioni presidenziali a Minsk hanno fatto emergere con forza una serie di frustrazioni politiche e sociali accumulate da tempo da parte di ampi settori della popolazione soprattutto urbana, aggravate dal Covid.
Come altrove, la pandemia ha fatto addormentare le pubbliche opinioni nella paura e le ha risvegliate nel risentimento. La repressione delle proteste ordinata da Lukashenko ha fatto il resto ed è servita da detonatore. Ora che la rivolta a Minsk è esplosa imponente e spontanea, ad essere spiazzato non è stato solo Lukashenko ma le stesse cancellerie Occidentali che non hanno nella loro attuale agenda diplomatica una “democratizzazione” della Bielorussia.
Questo è il primo motivo per cui non assisteremo a breve al ripetersi di un altro Maidan ucraino a Minsk.
Da un lato, gli Stati Uniti sono presi da una delle più divisive campagne presidenziali della loro storia e comunque né Donald Trump (che si interessa di scenari più ad effetto come Corea del Nord o Medio-Oriente) né Joe Biden (comunque ammaccato dalle voci sui suoi conflitti di interesse in Ucraina) mostrano troppo entusiasmo per quanto accade in Bielorussia.
Dall’altro, l’Unione europea è indebolita da una crisi politica interna per via del Covid e, tagliati drasticamente i fondi per l’European Neighbourhood and Partnership Instrument (ENPI) per via del Recovery Fund, non può essere l’attore “pay-but-not-play” (paga i costi dell’intervento internazionale senza incidere) come visto in molteplici scenari, dal Kosovo, all’Albania, alla Bosnia, alla stessa Ucraina.
Né va dimenticato che il fronte occidentale, visto il precedente della Crimea, sia più prudente nel decidere un nuovo intervento che, ancorché politico, potrebbe provocare un altro over-reacting di Mosca, contro il quale poco possono le armi spuntate di nuove sanzioni.
Alla luce di questa cautela euro-atlantica e della reazione surreale di Lukashenko alle proteste (mimica e retorica ricordano gli ultimi giorni di Ceausescu nel 1989) è evidente che l’esito della situazione dipenderà da come si muoverà la Russia.
Consapevole della difficoltà di intervenire proprio per via dei troppi legami profondi tra società e politica dei due Paesi, che ostacolano una strategia a mente fredda come quella, quasi perfetta, adottata in Siria, Mosca cerca comunque di non ripetere a Minsk gli errori commessi a Kiev; forte del fatto di potere agire questa volta con maggiore calma e senza altri competitors internazionali di rilievo.
L’ipotesi di sostenere Lukashenko a restare ancorato al potere sembra perdere terreno a Mosca, anche se questa opzione avrebbe il vantaggio di sancirne definitivamente una dipendenza da una posizione di inedita debolezza nei confronti del Cremlino.
Ancora più improbabile sarebbe un’azione di forza a riguardo (richiesta peraltro da Lukashenko alla Russia) per il danno di immagine che porterebbe a Mosca sia a livello internazionale sia, soprattutto, a livello interno dove, tra Covid-guerra del greggio-riforme costituzionali, la popolarità di Putin (si badi, non il consenso) ha fatto registrare un calo che è suonato come un campanello d’allarme.
D’altro canto si fa strada la convinzione che, per mantenere Minsk nell’orbita russa, sia necessario anticipare un cambio della leadership dall’interno prima che venga sollecitato da fattori esterni, con esiti fuori controllo. Irritata da tempo per i suoi comportamenti spavaldi, anacronistici e fuori controllo, l’impressione è che Mosca stia già cercando a Minsk un sostituto a Lukashenko, oramai indifendibile e logorato dal potere.
Ugualmente improbabile è che il Cremlino apra alla attuale opposizione (come alla candidata alle presidenziali Svetlana Tikhanovskaya, rifugiatasi in Lituania) troppo vicina ai paesi baltici, esterna alla funzione pubblica ed ai gruppi economici dominanti in Bielorussia, a loro volta legati in osmosi al sistema politico ed al mercato protetto russo, da cui dipendono nella quasi totalità.
Piuttosto, attenendosi alla ferrea regola di alimentare la continuità dell’establishment, il Cremlino pare stia già interagendo sui settori del Deep State bielorusso più vicini a Mosca perché emerga, dal contesto governativo di Minsk, un nuovo-vecchio leader.
Solo cosi si spiegano episodi prima impensabili che vanno dalla presa di distanza dalle repressioni di ampi settori dei potenti servizi di sicurezza; alle dimissioni presentate dall’Ambasciatore in Slovacchia Igor Leshenya (il diplomatico di carriera più di lungo corso negli affari esteri bielorussi), al recentissimo siluramento da parte di Lukashenko del primo ministro Siarhiej Rumas, tra i visi nuovi dell’establishment più popolari in patria e graditi a Mosca.
In carica dal 2018 e fautore delle riforme strutturali delle privatizzazioni, Rumas ha goduto di un’importante visibilità positiva nel mainstream russo che ne ha lanciato un immagine di leader emergente riformista, opposta al look ancora sovietico di Lukashenko.
Una ascesa alla presidenza sua (o di un altro simile candidato istituzionale), sponsorizzata dietro le quinte dal Cremlino, esemplifica al meglio il modello di avvicendamento al potere attraverso una soluzione interna di establishment.
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