CODOGNO, CREMONA E LA VAL SERIANA. E QUEI SINTOMI MOLTO TEMPO PRIMA DEL
PAZIENTE 1
I TENTENNAMENTI DI FINE FEBBRAIO HANNO AVUTO
EFFETTI NEFASTI, PERMETTENDO AL VIRUS DI INSINUARSI NEI TRENI STIPATI DI
PENDOLARI, NEI PRONTO SOCCORSO CON PAZIENTI CHE CREDEVANO DI AVERE
L'INFLUENZA, NEGLI UFFICI E NELLE RESIDENZE PER ANZIANI
Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini per www.ilgiornale.it
Non
è partito tutto da Codogno. Non è esploso a fine febbraio. E chissà se
le "zone rosse" avrebbero cambiato il corso degli eventi. La storia
dell’epidemia da coronavirus in Italia è tutta da scrivere, e molti
capitoli restano ancora oscuri. Ma quel che ormai appare chiaro è che le
convinzioni sin qui radicate, sia sull’evoluzione temporale del
contagio che sui luoghi colpiti dal coronavirus, sono probabilmente da
rivedere.
Se
ci basiamo infatti sui dati ufficiali riportati dalla Protezione
Civile, la storia dell’epidemia italiana sembra avere una data di inizio
(il 20 febbraio) e un luogo preciso (Codogno). È la cronaca che tutti
conosciamo e che abbiamo osservato ogni giorno seguendo le (inutili)
dirette del commissario Angelo Borrelli. Eppure esiste un prequel oscuro
che ci costringe a volgere lo sguardo più indietro.
Nello
studio intitolato "The early phase of the Covid-19 outbreak in
Lombardy, Italy", un gruppo di scienziati ha studiato i "primi 5.830
casi confermati in laboratorio" in Lombardia e ha scoperto che
"l'epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020". "Al
momento del rilevamento del primo caso Covid-19 - si legge - l'epidemia
si era già diffusa nella maggior parte dei comuni del sud-Lombardia".
Gli analisti hanno chiesto alle persone sottoposte a tampone e positive
al coronavirus di provare a ricordare quando erano sorti i primi sintomi
e i risultati sono sorprendenti.
Non
solo l'epidemia era "in corso prima dell'identificazione del paziente
1", ma addirittura il primo caso di coronavius è del 1 gennaio 2020, un
mese e mezzo prima l'esplosione del focolaio a Codogno. A dire il vero, i
test sierologici di questi giorni stanno spostando la lancetta
addirittura all'ultima decade dello scorso anno. Quel che è certo,
comunque, è che tra il 24 gennaio e l'inizio di febbraio in Italia
comparivano numeri sempre più consistenti di persone con sintomatologia
da Covid-19. Tanto che, quando il 20 febbraio l’Italia scopre il caso
nel Lodigiano, circa 1.200 di persone soffrivano già tutti i sintomi da
infezione da coronavirus.
È
da qui che occorre partire per valutare le scelte del governo in quei
primi drammatici giorni e capire se i vari lockdown sono stati
tempestivi oppure no. La prima decisione è quella di blindare dieci
Comuni nel Lodigiano (Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo,
Castiglione d'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia e
Terranova dei Passerini) e Vo' Euganeo in Veneto. La speranza è di
contenere l'infezione e di circoscrivere i contagi, ma in poche ore
comincia ad apparire evidente che bisogna fare qualcosa in più.
"Noi
avevamo chiaro che il problema si stava diffondendo anche oltre Codogno
- racconta una fonte nella task force lombarda - e in sede tecnica
avevamo fatto tantissime ipotesi su come agire". All'inizio, come il
Giornale.it è in grado di ricostruire, si pensa di allargare le zone
rosse nel Lodigiano. "Avevamo pensato di includere tutti i Comuni che
avevano avuto almeno due casi, poi quelli confinanti, in modo da creare
una corona un po' più ampia. Questa ipotesi però è stata scartata quando
le inchieste sul paziente 1 hanno evidenziato che l'infezione si era
ormai propagata e iniziavano ad emergere i primi casi a Bergamo". In
quel momento gli epidemiologi ancora non lo sanno, ma in Val Seriana, a
Cremona e a Piacenza i contagi si stavano già moltiplicando da giorni.
Senza che nessuno se ne accorgesse.
Distribuzione geografica dei casi (date di insorgenza dei sintomi) in Lombardia
Gli
studiosi lo capiranno solo diverse settimane dopo, quando le analisi
dimostreranno che Codogno non sarebbe neppure il luogo d'inizio della
tragedia. Andando a ritroso, la task force lombarda ha infatti scoperto
che i primi segnali dell'epidemia sarebbero sorti ad Arese e a
Conegliano Laudense, due Comuni di 20mila e 3mila abitanti.
E
solo in un secondo momento l'infezione si sarebbe allargata alle zone
del Lodigiano (il 24 gennaio), di Bergamo e di Cremona (il 31 gennaio).
"Se il focolaio fosse stato Codogno - dice la fonte - penso che saremmo
riusciti a bloccarlo. Invece una cosa che ormai ci è chiara, ma in quei
giorni lo era un po' meno, è che la nostra velocità di analisi della
catena di contagio era insufficiente rispetto a quella del virus".
Quello
che molti si chiedono è perché, una volta appurato che l'infezione era
ormai sfuggita dalla cittadella lodigiana, non si sia deciso di chiudere
anche le altre aree più colpite (Bergamo, la Val Seriana o Brescia) non
appena queste si "accendevano" come nuovi focolai. La successione degli
eventi è ormai nota: la Lombardia chiede a Roma di istituire nuove zone
rosse, il governo chiede lumi al comitato tecnico scientifico e poi
temporeggia.
Il
2 marzo, come rivelato da Tpi, l'Istituto superiore di sanità consiglia
a Conte di estendere la serrata ai comuni bergamaschi di Alzano
Lombardo e Nembro e a quello bresciano di Orzinuovi. Ma Palazzo Chigi
non si muove. Perché? Difficile dirlo. Sono ore convulse. Anche gli
epidemiologi navigano a vista. Quel che è certo è che la decisione
andava presa nell'immediato.
Tanto
che dopo pochi giorni di attesa (tra il 27 febbraio e l'8 marzo), gli
esperti iniziano a capire che è già troppo tardi e che l'unica soluzione
è chiudere l'intera Lombardia. "Quando è venuto il ministro speranza a
Milano (il 4 marzo, ndr), la relazione della task force già affermava che
le zone rosse probabilmente non avevano più senso e che ormai bisognava
fermare tutto". Quattro giorni dopo arriverà il Dpcm che chiuderà
l'intera Lombardia e altre 14 province del Nord.
I
tentennamenti di quelle due settimane hanno avuto effetti nefasti,
permettendo al virus di insinuarsi nei treni stipati di pendolari, nei
pronto soccorso degli ospedali affollati da pazienti in crisi
respiratoria convinti di avere una "banale influenza", negli uffici e
nelle residenze per anziani. "Sulle zone rosse - dice la fonte nella
task force - penso che se anche l'avessimo realizzata non credo che
avremmo ottenuto risultati sul contenimento dell'infezione. Ma
sicuramente avrebbe permesso di spegnere quei focolai un po' più in
fretta, come successo a Codogno. Forse se io e i miei colleghi fossimo
stati più convincenti, magari avremmo anticipato anche solo di 3 o 4
giorni la decisione del governo e forse avremmo limitato i danni". Fonte: qui
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