LA STORIA DI ANGELA OROSZ NATA SETTIMINA. PESAVA UN CHILO. LA MAMMA ERA STATA PRESA COME CAVIA UMANA DAI ‘DOTTORI’ NAZISTI E...
Michele Farina per il “Corriere della Sera”
Il più vecchio ha 101 anni, la più giovane è nata ad Auschwitz, da prigioniera. E ci è tornata ieri, insieme con altri duecento sopravvissuti che hanno varcato il cancello con la scritta «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi) forse per l' ultima volta, sempre per tenere viva la memoria.
Tra loro, dicono al Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), non c' era nessuno dei tredici italiani, ancora in vita, passati dal Lager simbolo del male assoluto. La neonata di Auschwitz ha 75 anni, l' età della liberazione: il 27 gennaio del 1945 i primi soldati russi entravano nel campo dove i nazisti avevano ucciso un milione e centomila persone, quasi tutti ebrei.
Angela Orosz è nata settimina: la mamma, Vera Bein, della comunità ebraica ungherese (425 mila deportati da maggio a luglio 1944, 90% sterminati) era stata presa come cavia umana dai «dottori» nazisti. Il parto fu indotto con un' iniezione dolorosissima.
Quando venne alla luce pesava un chilo: «Ero troppo debole per piangere - ha raccontato anni fa -. E questo probabilmente mi ha salvato». Cinque mesi dopo, il campo fu liberato. In una baracca quel giorno nacque un altro bambino, Gyorgy Faludi.
«Sua madre era troppo debole, così la mia mamma allattò tutti e due».
Eva Szepesi, anche lei ungherese di Budapest, anche lei catturata nel 1944 con la mamma e il fratello, il giorno della liberazione era sdraiata su un tavolaccio, moribonda.
I nazisti che volevano svuotare il Lager dai testimoni viventi non l' avevano nemmeno inserita tra i prigionieri destinati alle «marce della morte».
Ma «qualcuno, non so chi, mi diede da bere la neve - ha raccontato al Guardian la signora Szepesi, che oggi vive a Francoforte in Germania -.
Sono sopravvissuta grazie alla neve. Mi ricordo il suo sapore: com' era buona. E mi ricordo un soldato con il cappello di pelliccia e la stella rossa che si china su di me e sorride».
Eva ha 87 anni e ieri era ad Auschwitz con la figlia Anita.
Il 27 gennaio è il giorno dei sopravvissuti, che non sono soli. Sono arrivati con parenti, amici, molti giovani. C' è la consapevolezza che potrebbe essere l' ultima occasione per ritrovarsi nel luogo che ha segnato le loro vite. Nel pomeriggio, sotto una tenda, là dove arrivavano i treni piombati con il loro carico umano, si è tenuta la cerimonia con le autorità e i leader politici.
Ha parlato il presidente polacco Andrzej Duda. E se non c' è Vladimir Putin, che accusa la Polonia di aver collaborato con Hitler all' inizio della Seconda Guerra Mondiale, ben più importante è la presenza di Ernest Ehemann, 91 anni, che viene dal Canada: «Questo è il mio tredicesimo ritorno. E ogni volta è come se un video terribile ripartisse nella mia mente. L' arrivo con i miei genitori, la nostra separazione. Loro a sinistra e io a destra. Soltanto alla liberazione ho scoperto che erano morti mezz' ora dopo il nostro arrivo». A sinistra le camere a gas, a destra la vita e la morte nel Lager.
«È un dolore, ma ci torno - racconta Ernest -. È l' ultimo posto dove ho visto vivi il mio papà e la mia mamma». Con Ernest c' è la figlia sessantenne Audrey: «È la terza volta che vengo, e non lo sento come un peso. Sento che questa è una parte di me, come è una parte di me imparare a raccontare la storia dei mei genitori e di chi ha vissuto la loro esperienza».
Eva Szepesi, il numero 26877 tatuato sul braccio sinistro, ha scoperto soltanto nel 2016 che la mamma e il fratello erano morti ad Auschwitz, due dei sei milioni di ebrei uccisi nell' Olocausto. «È stata mia nipote a scoprire i nomi scritti in bianco e nero» nell' elenco delle vittime. Per decenni Eva ha preferito non indagare, non sapere. È una cosa naturale. Ed è bello che siano le nuove generazioni a cercare le tracce della memoria.
Jona Laks ha 90 anni, viene da Israele. È una delle ospiti d' onore delle celebrazioni di oggi: «Sembra impossibile che sia passato tanto tempo - racconta alla Reuters sotto il cielo grigio di Auschwitz -.
Rivedo il forno, le scintille dal camino, l' odore della carne bruciata». Jona non doveva essere lì. Aveva 14 anni quando dal ghetto ebraico di Lodz, nella Polonia occupata dai nazisti, fu condotta al Lager nel carro bestiame, con la gemella Miriam e la sorella più grande Chana. Jona all' arrivo del treno fu mandata a sinistra, verso i forni, le sorelle a destra.
Era un dottore delle SS a fare la selezione. Il suo nome era Joseph Mengele, il famigerato «Angelo della Morte». «Arrivò con i cani e un bastone. Destra, sinistra, destra, sinistra. Non penso che guardasse le persone, sembrava annoiato - ricorda la signora Laks -. Quando ci separarono, mia sorella maggiore lo implorò: "Non separi due gemelle"». E Mengele, che era interessato per aberranti motivi pseudoscientifici agli esperimenti su donne incinte e fratelli siamesi, mandò un ufficiale a recuperare Jona dalla fila di sinistra. «Fui fortunata - dice oggi lei -. O forse sfortunata», prosegue dopo un istante di silenzio.
«A volte penso che neppure gli animali potrebbero sopravvivere alle crudeltà a cui fummo sottoposti», racconta la nonna alla nipote Aldar che l' accompagna. Al Blocco 10 la signora Laks si ferma: lì c' era il laboratorio di Mengele.
Fuori, un cortile con quello che viene chiamato «il muro della morte», dove i prigionieri a volte venivano allineati e uccisi, e dove oggi i sopravvissuti si ritrovano per accendere candele alla memoria.
Altre scintille. «Dall' interno, sentivamo i lamenti di chi veniva assassinato», dice la novantenne sopravvissuta. Poi guarda Aldar, e ha come un sussulto della memoria. «Sono qui con mia nipote, e posso dire che ce l' abbiamo fatta.
Fonte: qui
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