UNA STORIA UNICA NEL TRAFFICO DI DROGA: TRE AMICI PARTITI DAL BRASILE CON DESTINAZIONE GALIZIA, A BORDO DI UN SOMMERGIBILE COSTRUITO NELLA GIUNGLA BRASILIANA.
DANIELE MASTROGIACOMO per repubblica.it
Agustín Álvarez era felice. Eccitato ma anche preoccupato. A soli 29 anni, con i titoli da comandante che si era guadagnato a scuola e affrontando le tempeste della Galizia in pieno inverno, adesso poteva aggiungere una striscia d’oro in più alle spallette della giacca blu. Sarebbe entrato nella leggenda.
Avrebbe pilotato un sottomarino di 20 metri costruito in mezzo alla giungla dagli ingegneri assoldati dai narcos. Doveva trasportare via mare, sotto l’Atlantico, un carico di 6 mila chili di cocaina purissima fino alle coste settentrionali della Spagna. Un’impresa mai affrontata prima. Unica nella lunga storia del traffico internazionale di droga.
Mentre il Boeing rullava sulla pista diretto verso Manaus, in Brasile, fu assalito dal panico. Lo ha detto lui stesso agli investigatori spagnoli e portoghesi durante la lunga confessione che ha rilasciato una settimana fa. Non aveva dettagli del piano. Sapeva solo che sarebbe stato accompagnato da due ecuadoriani senza alcuna esperienza di navigazione. Qualche corso in acque dolci. Un fiume. Niente a che vedere con le correnti e le violente perturbazioni che attraversano l’oceano. Un suo amico, sempre galiziano, aveva rinunciato perché dagli schizzi del natante ricevuti lo considerava insicuro. “E’ una follia, lascia perdere”, gli aveva detto.
L’arrivo a Leticia, un paesino immerso nella foresta amazzonica, sul confine di Brasile, Colombia e Perù, dove tra il verde fitto della giungla spiccano ville faraoniche dotate di paraboliche e lungo le strade battute da maiali e galline sfrecciano Ferrari e Maserati, era stato più semplice del previsto. Un bimotore lo aveva prelevato e poi trasferito nel triangolo d’oro della cocaina sudamericana. Ad attenderlo gipponi neri con uomini armati che lo avevano condotto direttamente sulle rive del Rio delle Amazzoni.
Qui galleggiava già questo bestione da 2,5 milioni di euro, in fibra di carbonio, diviso in compartimenti stagni, un potente motore da 2mila cavalli, 20mila litri di gasolio, un sistema di areazione, con al centro il cuore del sottomarino: la stiva dove erano sistemati 152 pacchi di cocaina sopra i quali il terzetto avrebbe timonato, dormito, cucinato e mangiato. La rotta doveva coprire 5.600 miglia, 9.000 chilometri, tremila dei quali sul fiume fino alle foci di Macapá e gli altri seimila puntando verso nord ovest fino alla spiaggia di Hío, Pontevedra, Galizia. Ventisei giorni di navigazione, cibo appena sufficiente, turni serrati al timone. Compenso: 100 mila dollari, anticipati.
Tutto fila liscio fino a metà traversata. Poi, come sempre accade in mare, si rompe qualcosa: il sistema di areazione fa le bizze e si ferma definitivamente dopo diversi tentativi di ripararlo. Impossibile restare sommersi a due metri di profondità come avevano suggerito gli ingegneri della giungla. Bisogna emergere ogni tanto, aprire il portellone e cambiare l’aria interna. La cosa non è facile. Le onde e le raffiche di vento rischiano di far imbarcare acqua. L’equilibrio dell’imbarcazione potrebbe risentirne e affondare.
A fatica, con turni sempre più massacranti, il cibo che scarseggia, la navigazione procede a rilento. Il sottomarino passa a 45 miglia a sud delle Azzorre e dopo 24 giorni il profilo della Spagna appare all’orizzonte.
Ma il meteo ci mette del suo e scatena una tempesta. Emergere è sempre più complicato. Gli scossoni hanno spostato il carico e in più il sistema idraulico perde olio che ha invaso la stiva.
L’abitacolo dei tre marinai è un vero inferno. Ma la costa è ormai a portata di mano. A terra, da giorni, gli specialisti dell’antidroga portoghese e spagnola lo stanno cercando. La soffiata della Dea è concreta. Ma nessuno ha le coordinate del sottomarino. Sono anni che gira la voce su una fantomatica impresa dei narcos: portare i carichi di coca sotto le acque dell’Atlantico. Ci credono in pochi, sebbene ne parlino tutti. La cosa indispettisce i clan galleghi che dopo essere stati sbaragliati negli Anni '80, hanno ripreso il loro traffico nel massimo silenzio. In ballo c’è un carico da 130 milioni di euro. Chi sgarra, o solo perde questo tesoro, paga con la vita.
A bordo il comandante assieme a Pedro Roberto Delgado, 44 anni e Luis Tomás Benítez, 42, entrambi ecuadoriani, cercano affannosamente le coordinate dell’appuntamento con chi deve prendere la coca e portarla a terra. E’ il 24 novembre. Le raggiungono, attendono, non si presenta nessuno. Restano a pelo d’acqua ma si sentono allo scoperto e decidono di abbandonare il sottomarino. Lo faranno affondare e torneranno successivamente a recuperare il carico. Aprono le valvole e davanti alla spiaggia di Hío si gettano in mare. La polizia ha praticamente occupato tutta la costa. La coppia di ecuadoriani viene subito presa e arrestata; il comandante invece fa perdere le sue tracce. Sarà catturato giorni dopo, assieme allo zio e al cugino che lo erano andati a raccattare con abiti asciutti.
Il sottomarino non affonda, resta a galleggiare un metro sotto il pelo dell’acqua. Le balle di cocaina sono recuperate ma dei 6 mila chili, circa 500 sono bagnati quindi andati. I tre confessano e raccontano. Niente nomi, ovviamente. Spiegano solo il percorso, il viaggio, le avarie, le difficoltà. Entrano nella leggenda.
Tutta la Galizia ne parla. Ma con moderazione. I clan locali, quelli che dovevano ricevere la droga, sono furibondi. Il tema è tabù. A scoprire l’impresa è stata una leggerezza degli organizzatori: si sono fatti notare sulle rive del Rio delle Amazzoni. La voce è arrivata all’antidroga e da qui alla Dea che l’ha passata ai portoghesi e agli spagnoli. Dopo averlo costruito in Suriname, i tecnici avevano risalito il fiume con il sottomarino fino a Leticia. Provando e riprovando quella che sarebbe stata la nuova rotta del narcotraffico. Fonte: qui
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