Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, quanto alla tragedia di quei due nostri connazionali che sono andati a sfracassarsi in auto mentre erano connessi su Facebook a fare smaniare di invidia degli eventuali idioti loro amici, due e molto diversi sono i nostri possibili criteri di valutazione.
L’uno, ovvio, la commiserazione per due giovani vite interrotte e perdute, per il lutto dei loro familiari, per il dolore di fidanzate e amici. Mentirei a me stesso però se vi dicessi che questo è il primo criterio di valutazione che mi viene in mente. Purtroppo me ne viene in mente un altro, di sgomento per la infinita stupidità e miseria di una parte non esigua delle ultime generazioni.
Una stupidità che nel nostro presente sembra crescere e diffondersi a dismisura, alimentata com’è dai potentissimi motori dei social network. E’ una stupidità, di cui ha scritto bene Emanuele Trevi sul “Corriere” di oggi, che sfocia in episodi dove non sai bene qual è la linea divisoria tra il suicidio e l’omicidio.
I due sciagurati che si riprendono al telefonino a vantare la loro velocità in un pezzo di autostrada dove ce n’è a bizzeffe di sciagurati come loro, e difatti erano sopravvissuti alla micidiale carambola di un’auto che stava viaggiando a 200 chilometri e oltre all’ora, salvo che stavano arrivando – di notte e frammezzo alla pioggia – altre auto che li hanno maciullati.
Il tutto di questa inutile tragedia era attizzato da una sorta di narcisismo ebete commisurato alle attese e ai valori dei loro “followers”, ossia che è bellissimo correre da pazzi su un’auto di notte e tanto più che lì all’arrivo ti aspetta la “roba” e tutti i suoi annessi e connessi. Ragazze disponibili, immagino. Eccetera eccetera. Ossia la cattedrale dei piaceri ambiti da quella particolare etnia culturale.
Chi di noi non è stato un imbecille nei suoi vent’anni? Cambia poco che le due vittime avessero rispettivamente 36 e 39 anni, un’età di cui diresti che anche loro erano dei giovani, ossia che erano ancora nella stagione della vita in cui si vuole tutto e subito e a poco prezzo e ancor di più che ci sia qualcuno che ti stia ammirando mentre quel “tutto” lo stai acciuffando.
Nessuno ha da dare lezioni su come stare al mondo, meno che mai io che di lezioni so darne solo a me stesso. Eppure lo sgomento resta immenso. Innanzi all’entità di una tale e quanto diffusa incapacità a trovare un criterio, un limite, ai gesti del vivere. Ai gesti di cui è fatta la tua vita, l’unico tesoro di cui disponi veramente.
Uno sgomento che rafforza la mia assoluta diffidenza ad accettare parole come “gente”, “popolo”. Oggi in Italia non c’è un “popolo”, ci sono comparti differentissimi per generazione, etnia culturale, costume di vita, voracità dell’avere piuttosto che dell’essere.
Comparti fatti da individui più o meno allo sbraco, più o meno privi di qualsiasi bussola, pronti a qualsiasi puttanata dell’esistenza, pronti a qualsiasi aggressione, magari contro se stessi. Le prediche sul bene, sui doversi sociali, sulla solidarietà sono tutte parole campate sul nulla, perché non esiste più una comune sintassi intellettuale e morale cui fare riferimento.
Ciascuno tenta a modo suo i 200 chilometri all’ora, e cerca disperatamente il consenso di chi gli sta attorno sotto forma di un account su cui cliccare.
Noi che negli anni Sessanta avevamo talmente amato il “moderno”, il sopravvento di modi liberi e veloci del vivere, dobbiamo fare una verticale autocritica. Non avevamo capito che quel “moderno” se sprovvisto di una ferrea etica della responsabilità individuale – per quanto mi riguarda lo chiamo il “guardarsi allo specchio e giudicarsi e trovarsi decente” – sarebbe sfociato in una tragedia collettiva, dove la morte e l’autodistruzione sono a ogni angolo di strada.
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