A fine anni '50 il Pil saliva del 7%, la lira era da Oscar e il debito appena al 33% del Pil
C'è una bella differenza tra quella e questa deflazione. Di solito il «non succedeva da...» serve a dare ai dati statistici uno spin negativo.
Il senso del progresso che si è interrotto o, ancora meglio dal punto di vista giornalistico, di un regresso in piena regola. Oggi non si può più fare. La deflazione datata 1959 fu registrata alla vigilia del boom economico, in un'Italia con un potenziale enorme, lontana dai rigori del Dopoguerra e ancora immune dalla degenerazione - iniziata esattamente dieci anni dopo - che ha trasformato una tigre dell'economia e della cultura mondiale in un Paese periferico, famoso per la bassa competitività, il debito pubblico monstre e i giovani inoccupati.
Quella era una deflazione della speranza.
Il dato Istat del 2016 è deflazione della disperazione.
Specchio di una periferia europea: prezzi in discesa perché calano i consumi, il commercio è in crisi e le famiglie che adottano («negoziano», dicono i sociologi) uno stile di vita più povero.
Il dato Istat del 2016 è deflazione della disperazione.
Specchio di una periferia europea: prezzi in discesa perché calano i consumi, il commercio è in crisi e le famiglie che adottano («negoziano», dicono i sociologi) uno stile di vita più povero.
Nel 1959 tutti si sentivano più ricchi, anche se in termini assoluti erano più poveri. I Blue Jeans facevano capolino con i primi Levi's importati e venivano sdoganati come abbigliamento urbano. Gli italiani compravano soprattutto cibo (eredità dei rigori della guerra), pochi beni e zero servizi, ma regalavano ai figli la speranza di uno Stato solido, con un debito pubblico che era appena il 33% del Pil, 100 punti percentuali in meno rispetto a oggi.
La crescita economica viaggiava intorno al 7%, ritmi che oggi si registrano solo in Cina.
Paragone infelice per noi contemporanei quello con il Paese di 58 anni fa perché tra gli anni Dieci del 2000 e i Cinquanta del Novecento c'è un abisso che è di sostanza, ma anche di immagine. Proprio nel 1959 un giornale britannico, il Daily Mail, coniò il termine «Miracolo economico» per descrivere l'effervescenza della nostra economia.
Oggi siamo il grande malato d'Europa.
Arranchiamo, nonostante l'ombrello della moneta unica, mentre un anno dopo il 1959, la nostra Lira vinse l'Oscar della divisa più solida del mondo.
A Londra nascevano subculture giovanili che si ispiravano all'estetica e alla moda italiana (i Mod), il design italiano arrivava negli uffici e le nostre aziende pensavano a comprare marchi esteri, non a svenderli. È proprio nel 1959 che Olivetti acquisì la Underwood, storica marca di macchine da scrivere statunitense. Era l'era della Vespa e della Seicento (115 mila vendute nel solo 1959 su un totale di 250 mila immatricolazioni).
È anche l'anno del Nobel quasi monocolore italiano: quello della fisica a Emilio Segre per la scoperta dell'antiprotone, quello della letteratura a Salvatore Quasimodo.
A Sanremo vinceva un altro campione dell'Italia da esportazione, Domenico Modugno con Piove.
Evento di portata mondiale. In televisione andava in onda la prima edizione dello Zecchino d'Oro. Nelle sale del cinema c'erano pellicole di giganti del calibro di Mario Monicelli (La Grande Guerra) e Roberto Rossellini (Il Generale della Rovere).
E già ci si lamentava delle tasse con I tartassati di Steno con Totò e Aldo Fabrizi.
Le cronache rosa si occupavano di Maria Callas, che aveva rotto con il marito Giovanni Battista Meneghini e aveva scelto Aristotele Onassis.
Tutto avveniva in Italia, o così sembrava. Forse, l'unica analogia con l'Italia di allora è la politica. Il Pci si leccava le ferite per gli orrori dell'era staliniana.
Erano gli anni di Fanfani e il partito di governo, la Dc, era alle prese con le alchimie delle correnti interne. Nel 1959 nasce la corrente dei Dorotei.
Era la reazione alla decisione del Presidente del consiglio Amintore Fanfani di avvicinarsi al Partito socialista italiano.
Il politico aretino, che aveva concentrato su di sè la carica di capo del governo con quella di segretario della Dc, si dimise e a Palazzo Chigi andò Antonio Segni.
La linea del centrosinistra si impose qualche anno più tardi e portò in dote al Paese più spesa pubblica, più tasse e, in definitiva, meno libertà.
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