L’austerità, da qualcuno detta espansiva e proposta come soluzione alla crisi, ha avuto, in realtà, effetti espansivi; ma non nella direzione che ci si aspettava.
E l’espansione è stata, principalmente, per gli effetti negativi.
Abbiamo già detto che con l’avvento della crisi, per uscire dalla stessa o, almeno, per contenerne gli effetti negativi, si è seguita un’impostazione di finanza convenzionale.
Cioè, si sono utilizzate le politiche fiscali per contenere la crescita del rapporto debito/PIL, mentre si è lasciato alle politiche monetarie il compito di stimolare la domanda aggregata.
Questo genere di approccio è tipico di quella che viene chiamata la “trickle-down economics”, l’economia che “sgocciola verso il basso”. La stessa viene rappresentata e semplificata, a livello “grafico”, come una serie di bicchieri disposti a piramide mentre con una bottiglia si riempie il bicchiere al vertice.
Una volta che questo sarà pieno, il “liquido” comincerà a defluire nei bicchieri sottostanti portando l’effetto di sgocciolamento. Le cose, per tutta una serie di ragioni, non sono andate in questo modo e non c’è stato nessun effetto di sgocciolamento, tanto da far ritenere, metaforicamente, che al vertice della piramide ci fosse una damigiana invece di un bicchiere.
Quindi, le politiche di austerità non hanno portato a nessuno sgocciolamento verso il basso; e non avrebbero potuto farlo nemmeno a seconda di quella che, in un post semplice e molto ben fatto del Prof. Alberto Bagnai, viene chiamata l’aritmetica del debito pubblico.
Partiamo proprio da qui. È necessario considerare il fatto che la spesa pubblica, con i consumi, gli investimenti e la bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni) rientrano nella funzione del PIL.
Pertanto, tagliare la spesa pubblica significa tagliare, tout court, anche il PIL.
Questo, poi, in ragione del moltiplicatore fiscale, determinerà quanto PIL si perderebbe in relazione al taglio di spesa. E qui entrano in gioco le previsioni del Fondo Monetario Internazionale.
Infatti, lo stesso prevedeva, per es., per la Grecia, una perdita di 0,5 euro di PIL per ogni euro di spesa tagliata.
Infatti, lo stesso prevedeva, per es., per la Grecia, una perdita di 0,5 euro di PIL per ogni euro di spesa tagliata.
Neanche a dirlo, le previsioni del FMI non sono state rispettate. Invero, in Grecia, a seconda delle fonti, per ogni euro di spesa pubblica tagliata si sono persi dagli 1,3 agli 1,7 euro di PIL.
Ma, proprio come fatto dal Prof. A. Bagnai, facciamo i signori e immaginiamo un moltiplicatore fiscale neutro di uno a uno: cioè un euro di PIL perso, per ogni euro di spesa tagliata.
Se partiamo da uno Stato che ha un PIL di 5 e un debito di 6, cioè un rapporto debito/PIL del 120%, e impostiamo delle politiche di austerità, tagliando la spesa di uno, per far diminuire il debito di uno, il rapporto debito/PIL non diminuirà, bensì aumenterà.
Se partiamo da uno Stato che ha un PIL di 5 e un debito di 6, cioè un rapporto debito/PIL del 120%, e impostiamo delle politiche di austerità, tagliando la spesa di uno, per far diminuire il debito di uno, il rapporto debito/PIL non diminuirà, bensì aumenterà.
Questo perché il taglio della spesa porterà il debito da 6 a 5, ma anche il PIL da 5 a 4; e questo corrisponde ad un livello di indebitamento del 125%.
Al contrario, se aumentassimo la spesa di uno, considerando sempre un moltiplicatore “neutro” di uno a uno, avremmo un aumento del debito che passerebbe da 6 a 7, ed un aumento del PIL che passerebbe da 5 a 6.
Ciò equivale ad un rapporto debito/PIL del 116,666%.
Ciò equivale ad un rapporto debito/PIL del 116,666%.
Vediamo, pertanto, che, nel caso dell’Italia, con un moltiplicatore fiscale neutro, un taglio della spesa corrisponde ad un aumento del rapporto debito/PIL, mentre un aumento della prima porta ad una diminuzione del secondo.
Il tutto è confermato anche nel libro di H.P. Minsky, dal titolo “Combattere la povertà”, dove si sottolinea come sia proprio ad alti livelli di debito/PIL che gli effetti dei tagli sono più deleteri, perché – per dirla semplicemente - il numeratore (debito) prevale sul denominatore (PIL).
Pertanto, le politiche di austerità non avrebbero potuto funzionare, in Italia, per questioni di semplice aritmetica e anche in ragione dell’alto rapporto debito/PIL.
Pertanto, le politiche di austerità non avrebbero potuto funzionare, in Italia, per questioni di semplice aritmetica e anche in ragione dell’alto rapporto debito/PIL.
Ma, siccome troppe volte le parole non bastano, nemmeno supportate da una semplice aritmetica, si ritiene necessario allegare anche qualche altro dato che possa dimostrare come l’austerità non solo non abbia avuto nessun effetto espansivo (“austerità espansiva” qualcuno si è persino spinto a dire) ma, bensì, abbia avuto effetti deleteri a tutto tondo.
Prendiamo come inizio il 2008, vediamo alcuni parametri e come sono variati in relazione alle politiche implementate da quell’anno. Cominciamo proprio con il rapporto debito/PIL.
Rapporto debito/PIL Italia
Il rapporto debito/PIL era al 102,3% nel 2008 e nel 2015 al 132,7%.
Il rapporto debito/PIL era al 102,3% nel 2008 e nel 2015 al 132,7%.
Ergo: le politiche di austerità non hanno contenuto la crescita dello stesso.
Tasso di disoccupazione Italia
La disoccupazione generale era appena sopra il 6% nel 2008, mentre nel 2016 è appena sotto il 12%. Questo vuol dire che è quasi raddoppiata.
La disoccupazione generale era appena sopra il 6% nel 2008, mentre nel 2016 è appena sotto il 12%. Questo vuol dire che è quasi raddoppiata.
Pertanto le politiche di austerità, unite a quelle di precarizzazione (come il jobs act), non hanno avuto nessun effetto se non quello di peggiorare la situazione. E la condizione della disoccupazione giovanile è anche peggiore.
PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto
Si può facilmente notare che il PIL pro-capite, a parità di potere d’acquisto, è fortemente diminuito dall’inizio della crisi e l’inversione di tendenza del 2015 non può essere, al momento, considerata significativa, dato che si era verificata anche nel 2010 e nel 2011, per tornare, poi, a invertire ancora il suo trend con un’ulteriore diminuzione.
Si può facilmente notare che il PIL pro-capite, a parità di potere d’acquisto, è fortemente diminuito dall’inizio della crisi e l’inversione di tendenza del 2015 non può essere, al momento, considerata significativa, dato che si era verificata anche nel 2010 e nel 2011, per tornare, poi, a invertire ancora il suo trend con un’ulteriore diminuzione.
PIL Italia (in miliardi di dollari)
In questo caso la perdita di PIL (nominale) ci sembra così evidente da non dover nemmeno essere commentata.
In questo caso la perdita di PIL (nominale) ci sembra così evidente da non dover nemmeno essere commentata.
Investimenti fissi lordi Italia
Possiamo dire, in questo caso, che l’austerità non ha fatto tornare la “Fata della fiducia” e gli investimenti sono restati al palo.
Possiamo dire, in questo caso, che l’austerità non ha fatto tornare la “Fata della fiducia” e gli investimenti sono restati al palo.
C’è poi tutta un’altra serie di parametri relativi, per es., alla crescita dei salari, alla produzione industriale e in altri comparti, alla confidenza nel business, ecc. ecc., che testimoniano come l’austerità non abbia avuto nessun effetto eclatante sugli stessi.
Per cui, l’austerità non ha funzionato, non funziona e non funzionerà.
Nonostante questo, si continua a ripetere il mantra dell’austerità e del taglio di spesa pubblica che farà diminuire il rapporto debito/PIL, rilancerà l’economia e, con la stessa, la crescita del PIL, l’occupazione, gli investimenti, ecc. ecc.
Nonostante questo, si continua a ripetere il mantra dell’austerità e del taglio di spesa pubblica che farà diminuire il rapporto debito/PIL, rilancerà l’economia e, con la stessa, la crescita del PIL, l’occupazione, gli investimenti, ecc. ecc.
Questo ci sembra vada oltre ogni logica e sensatezza, in quanto la crisi è cominciata nel 2008 e, considerando anche lo stesso, siamo ormai a ben nove anni di crisi – cioè siamo nel lungo periodo; e anche da un bel po’.
Nove anni nei quali ci siamo sentiti ripetere sempre le stesse cose che poi sono state sistematicamente, sempre e ineluttabilmente, smentite dai fatti.
Nove anni nei quali ci siamo sentiti ripetere sempre le stesse cose che poi sono state sistematicamente, sempre e ineluttabilmente, smentite dai fatti.
Di poi, per concludere, a parte il famoso “nel lungo periodo saremo tutti morti” di J.M. Keynes, dobbiamo ricordare, sempre attingendo dallo stesso autore, che il lungo periodo è fatto di tanti brevi periodi; e che se non implementiamo buoni provvedimenti nel breve periodo, difficilmente avremo buoni risultati nel lungo.
Per cui, forse sarebbe meglio prendere coscienza del fatto che non possiamo proseguire su questa strada e che dobbiamo uscire da quel modello di new consensus che ci impone un surplus commerciale accompagnato da un surplus di bilancio (sottolineiamo ancora una volta che l’Italia è in avanzo primario dal 1992), per tornare ad un modello di finanzia funzionale dove siano le politiche fiscali a stimolare la domanda aggregata e quelle monetarie a contenere la crescita del rapporto debito/PIL.
Fonte: qui
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