Almeno mille miliardi di dollari di investimenti sono sfumati in seguito al crollo del petrolio. E i tagli rischiano di continuare, con possibili gravi conseguenze in un prossimo futuro: nel giro di 3-5 anni potrebbe essere impossibile anche solo compensare il naturale declino dei giacimenti.
Due nuovi studi, realizzati da società di consulenza, rilanciano con forza l’allarme sulle carenze di offerta che si delineano all’orizzonte, dopo il boom di produzione degli ultimi anni. Gli investimenti in conto capitale destinati a sviluppare nuovi giacimenti tra il 2015 e il 2020 sono state ridotti del 22%, ossia di 740 miliardi di dollari, stima WoodMackenzie, e se si includono i tagli alle spese di esplorazione la cifra supera 1.000 miliardi.
Le conseguenze cominciano già a manifestarsi: quest’anno tra petrolio e gas ci sono 5 milioni di barili al giorno in meno rispetto a quanto ci si aspettasse, avverte la società, mentre l’anno prossimo mancheranno all’appello altri 6 mbg, pari al 4% dell’offerta.
Drammatiche sono le conclusioni a cui arriva un’altra ricerca, realizzata da Deloitte: i budget di investimento delle compagnie (escluso Medio Oriente e Nord Africa) sono stati più che dimezzati negli ultimi due anni, col risultato di scendere «al di sotto del livello minimo necessario non tanto per soddisfare la crescita della domanda, ma anche solo per compensare il declino delle risorse». Fra 3-5 anni è dunque prevedibile che la produzione sia inferiore ai livelli attuali. E rimediare non sarà facile: se il petrolio resterà intorno a 55 $/barile, Deloitte teme che ci sia un gap di finanziamenti fino a 2mila miliardi di dollari.
Anche con consumi deboli e costi bassi, stima la società di consulenza, tra il 2016 e il 2020 l’industria petrolifera avrebbe bisogno di investire almeno 3mila miliardi di $ (più altri 2.700 miliardi nell’area Mena). Si tratta di 600 miliardi l’anno, ossia il 40% in più di quanto è atteso per il 2016. Un altro miliardo sarà necessario nei prossimi 5 anni per i dividendi - che ben poche compagnie hanno ridotto - e a servizio del debito, con 590 miliardi di obbligazioni che andranno a scadenza entro il 2020. La priorità, teme Deloitte, non sarà il capex.
L’impatto della caduta dei prezzi del petrolio è stato «enorme», osserva WoodMackenzie, e ha colpito quasi tutti i Paesi produttori. L’unica area risparmiata è stata il Medio Oriente, dove l’Arabia Saudita e altri continuano a investire «per mantenere le quote di mercato». Il crollo del barile ha avuto viceversa conseguenze drammatiche per lo shale oil: solo tra il 2016 e il 2017 negli Stati Uniti sono stati cancellati 125 miliardi di investimenti - ossia oltre la metà - e altri 200 miliardi di tagli sono attesi entro il 2020. La situazione è molto grave anche nel Mare del Nord e in Russia, con riduzioni del capex intorno al 40%, che tuttavia nel secondo caso sono legate in buona parte al deprezzamento del rublo.
Anche la discesa dei costi influisce, ridimensionando le cifre destinate allo sviluppo di nuove risorse. «Tuttavia - avverte WoodMackenzie - per innescare il prossimo ciclo di investimenti ci vorranno una maggior deflazione dei costi e un’ulteriore ottimizzazione dei progetti, insieme alla fiducia che i prezzi saranno più alti e a nuovi incentivi fiscali».
Il mercato per ora non si lascia condizionare. Nella generale fuga dal rischio innescata dall’ipotesi Brexit, il prezzo del petrolio ieri è sceso per la quinta seduta consecutiva, come non accadeva da febbraio. Nonostante il calo delle scorte petrolifere negli Usa, il Brent ha chiuso a 48,97 $ (-1,7%), il Wti a 48,01 $ (-1%).
A frenare il barile contribuisce anche il timore che lo shale oil possa tornare a crescere. Secondo Citi gran parte dei pozzi perforati ma non ancora sottoposti a fratturazione idraulica (i cosiddetti Duc, Drilled but uncompleted) sono remunerativi col petrolio a 50 $ e se completati potrebbero riportare sul mercato fino a un milione di barili di greggio al giorno. Goldman Sachs - che definisce «fragile» la recente ripresa dei prezzi - suggerisce addirittura che ci potrebbe essere una ripresa anticipata degli investimenti brownfield, ossia a base zero: «Questo è un ciclo di investimenti breve, che come nel 2009 potrebbe portare a forte rimbalzo della produzione», sostiene la banca, che tuttavia su questo punto è piuttosto isolata.
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Petrolio, le società Usa cancellano un quinto delle riserve (e non è solo colpa dei prezzi)
Più di nove miliardi di barili di petrolio sono scomparsi.
Non dal terreno, forse (anche se non è detto che ci fossero proprio tutti) ma certamente dai bilanci delle società americane, che hanno dovuto cancellarli dalle categoria delle riserve provate: l’unica che conti davvero, perché - identificando le risorse che saranno verosimilmente estratte nel breve termine - rappresenta il più prezioso patrimonio e la garanzia dell’esistenza futura di una compagnia.
La riduzione delle riserve è in parte l’effetto - peraltro prevedibile - della caduta dei prezzi del greggio, ma ad accentuare il fenomeno ha contribuito anche la maggiore severità della Sec, l’autorità di mercato statunitense, che secondo l’agenzia Bloomberg negli ultimi mesi ha forzato diverse società attive nello shale oil ad adottare un approccio più realistico. Secondo la definizione ufficiale imposta dalla stessa Sec, si possono infatti conteggiare come riserve provate solo gli idrocarburi che, allo stato attuale delle tecnologie, hanno la ragionevole certezza di essere estratti con profitto nei prossimi 5 anni.
In teoria non c’è spazio per la discrezionalità. Fin dal 2009 la Sec aveva precisato che le compagnie devono predisporre un preciso programma operativo: «Il mero intento di sviluppare le risorse, senza nient’altro, non costituisce l’adozione di un piano di sviluppo». Finché il petrolio quotava oltre 100 dollari al barile la Consob americana aveva chiuso un occhio sui fracker, che spesso che vantavano riserve strabilianti. Ma quando è arrivata la crisi molte di queste società, cariche di debiti e sempre più incapaci di finanziarsi, hanno rallentato l’attività al punto da rendere inverosimili i loro programmi di sviluppo a 5 anni.
Il pressing della Sec, secondo Bloomberg, si è indirizzato in particolare su Ultra Petroleum, Goodrich Petroleum, Linn Energy e Penn Virginia. Tutte sono finite in bancarotta negli ultimi mesi, dopo un drastico taglio delle riserve provate: un asset che molto spesso le compagnie utilizzano come collaterale per ottenere credito.
Il crollo del petrolio resta comunque il fattore principale all’origine del calo delle riserve provate, il più drammatico dal 2009: per 59 compagnie quotate negli Usa è stato di oltre il 20%, per la precisione di 9,2 miliardi di barili. La relazione tra il declino dei prezzi e delle riserve è automatica, perché la Sec ha stabilito parametri precisi anche per determinare quali risorse sia possibile estrarre con profitto: il riferimento da utilizzare è il “price deck” ufficiale, che consiste nella media aritmetica delle quotazioni del Wti registrate nel primo giorno di contrattazione di ciascuno dei dodici mesi precedenti.
Il particolare metodo di calcolo negli ultimi due anni ha protetto le compagnie da contraccolpi: fino a tutto il 2015 - anche se il petrolio crollava dall’estate 2014 - si potevano considerare riserve provate anche i barili che per essere redditizi avrebbero richiesto prezzi superiori a 90 dollari. Ora però la festa è finita. La discesa del greggio è stata così prolungata da filtrare finalmente al price deck: per il 2016 valgono solo i barili che vanno a breakeven a 50,13 $, il 48% in meno rispetto all’anno scorso.
Le riserve provate sono una categoria dai confini fluidi, che tornerà ad allargarsi con una risalita dei prezzi del greggio e/o con l’introduzione di nuove tecnologie, che abbassino i costi di estrazione. La revisione tuttavia è una batosta non indifferente, che ha colpito non solo gli operatori dello shale oil, ma anche le Majors, che vedono aggravarsi una situazione già difficile. Con un taglio di oltre mille miliardi alle spese in esplorazioni e sviluppo di giacimenti, l’anno scorso le scoperte di idrocarburi sono crollate ai minimi dal 1952 (si veda il Sole 24 Ore del 16 giugno e del 25 maggio). Anche l’M&A - altra strada per acquisire riserve - si è fermato, col risultato che tra le maggiori compagnie integrate, solo Eni, Total e Chevron nell’ultimo esercizio hanno più che compensato le risorse estratte. Persino il gigante ExxonMobil, per la prima volta da 22 anni, ha registrato un tasso di sostituzione delle riserve inferiore al 100%, fermandosi al 67%.
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