Visto che i media di regime non lo fanno, ve lo ricordiamo noi
Caso Grecia, c’è un precedente: nel 2010 il popolo Islandese con un referendum mandò a quel paese l’Europa
NEL MARZO DEL 2010 PIÙ DEL 93% DEI 300MILA ABITANTI DELL’ISOLA HA VOTATO “NO” ALLA RESTITUZIONE DI 3,9 MILIARDI DI EURO.
TRA IL 2009 E IL 2010 IL PIL DI REYKJAVIK È DIMINUITO DEL 10% E UNA RIPRESA HA INIZIATO A VEDERSI DAL 2011 QUANDO IL PAESE HA RITROVATO IL SENTIERO DELLA CRESCITA, MA LA CURA NON È STATA INDOLORE.
Per la Grecia che sta decidendo con un referendum quale deve essere l’atteggiamento nei confronti dei suoi creditori esiste un suggestivo precedente. Nel marzo del 2010 più del 93% dei 300mila abitanti dell’Islanda ha votato “No” alla restituzione di 3,9 miliardi di euro a Gran Bretagna e Olanda, entrambe colpite dal fallimento di tre banche del piccolo paese nordico. Sfortunatamente per i greci le similitudini sono più apparenti che reali e in ogni caso il voto liberatorio di Reykjavik non ha messo le ali ad un’economia che soffriva innanzitutto di mali propri. Facciamo un piccolo passo indietro.
Negli anni che precedono la crisi del 2008 l’Islanda attrae capitali dagli investitori esteri come se fosse un’idrovora grazie a tassi di interesse locali ben più alti (per combattere l’inflazione) rispetto a quelli statunitensi o dell’area Euro. Gli islandesi viceversa cercano di contrarre prestiti in euro o dollari su cui pagano interessi più bassi. Su entrambe le parti grava il rischio di cambio, ovviamente con dinamiche opposte. Se la corona si rafforza per un islandese è più facile ripagare i suoi debiti, se si indebolisce gli investitori esteri vedono diminuire il valore dei loro investimenti. In mezzo a questo vorticoso flusso di denaro proveniente da mezzo mondo, ci sono le banche islandesi che a loro volta si indebitano in valuta straniera e prestano in corone lucrando sulla differenza dei tassi.
Il “gioco” assume dimensioni impressionanti per un piccolo paese come l’Islanda. Le banche locali arrivano a gestire attività per 168 miliardi, quasi 20 volte il Pil dell’isola. Troppo anche se sembra una festa in cui tutti si divertono.
Non soddisfatte, le tre principali banche del paese aprono conti online in Gran Bretagna ed Olanda per i risparmiatori locali. In questo modo raccolgono valuta estera e la reinvestono in patria, di nuovo sfruttando la differenza dei tassi. Il 15 settembre 2008 la musica si ferma e la festa finisce all’improvviso nel peggiore dei modi. Il fallimento di Lehman Brothers paralizza i flussi di denaro, in tutto il mondo squilibri, debolezze ed esagerazioni finanziarie vengono alla luce. I capitali iniziano a fuggire dal paese e la corona perde il 50% del suo valore trascinando al ribasso tutti gli asset ad essa collegati.
Incapaci di ripagare i loro debiti, le banche islandesi falliscono una dopo l’altra.
Il governo è costretto a nazionalizzarle e per farlo deve farsi aiutare anche dal Fondo monetario internazionale a cui chiede un prestito di 5 miliardi di euro impegnandosi in cambio ad attuare misure di austerità fiscale. I conti online all’estero vengono abbandonati al loro destino garantendo solo minimi rimborsi. I risparmiatori inglesi e olandesi non pagano quasi dazio perché i soldi li mettono Londra e Amsterdam. Diventa una questione tra governi ma quello islandese “spariglia” il gioco rivolgendosi al popolo che con un referendum dice no alla restituzione dei soldi. L’Olanda rimarrà particolarmente scottata dalla vicenda e anche per questo motivo si dimostrerà particolarmente intransigente in altre situazioni a cominciare da quella greca.
L’Islanda è quindi riuscita con il voto popolare a liberarsi del debito verso gli stranieri. Ma la cura a cui si è sottoposta non è stata certo indolore e i risultati iniziano a vedersi solo ora. Ha dovuto salvare le sue banche spendendo una cifra pari al 30% del suo Pil e per farlo ha dovuto chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale da 5 miliardi di euro.
Ha imposto rigidi controlli sull’esportazione di capitali che solo da poche settimane vengono gradualmente allentati. Tra costi dei salvataggi e aumenti del debito il costo complessivo della crisi è stato stimato al 65% del Pil. Tra il 2009 e il 2010 il Pil è diminuito del 10% e una ripresa ha iniziato a vedersi dal 2011 quando il paese ha ritrovato il sentiero della crescita (2% all’anno).
I turisti stranieri sono in forte crescita grazie al cambio favorevole così come le esportazioni. Il calvario insomma è durato un triennio. Come per l’Islanda anche per la Grecia la partita del debito è ormai soprattutto una questione tra governi. Le banche, sono state “graziate” nel 2011 dall’intervento degli Stati, e dei relativi contribuenti, portando comunque a casa un taglio del 50% del valore dei loro crediti. Proviamo a “traslare” il precedente islandese sulla situazione greca. Anche con una moneta propria il sistema bancario nazionale andrebbe sostenuto, di fatto nazionalizzato. Ipotizzando un costo dell’operazione simile a quello dell’Islanda servirebbero circa 60 miliardi di euro.
Dove trovarli dopo aver rotto con i creditori europei ed Fmi? Inoltre dal punto di vista delle relazioni internazionali una cosa è mettere in conto a due governi 3,9 miliardi di euro, un altro è scaricare debiti che sono enormemente superiori. Se il costo finale della crisi fosse simile a quello islandese si parlerebbe di 120 miliardi. Superata la bufera finanziaria, dopo un’inevitabile profonda recessione è possibile che anche la Grecia ritrovi la via della crescita. La via islandese è una strada che si può scegliere di percorrere. Basta sapere che farlo non sarà comunque indolore.
Fonte: qui
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